Giacomo Matteotti ci mise in guardia dal fascismo, più che dai fascisti. Un libro

Nel centenario della morte di Giacomo Matteotti, Antonio Funiciello ne celebra la voglia di vivere. “Tempesta. La vita (e non la morte) di Giacomo Matteotti” (Rizzoli) è una dichiarazione d’amore per la vita e per la politica, intesa come passione esistenziale e sforzo quotidiano per migliorare le condizioni reali delle persone. Non, però, come mera pratica amministrativa: Matteotti fu un politico di solide convinzioni, che seppe costruire consenso attorno alle idee e non viceversa. Fu questo che lo rese, contemporaneamente, una luce in quegli anni bui, un ostacolo per i fascisti e un fastidio per molti antifascisti.
 

Chi è Matteotti? L’autore non risponde in modo esplicito: lascia che siano i fatti e i fotogrammi a farlo. Matteotti nasce il 22 maggio 1885 a Fratta Polesine, da una famiglia agiata, secondo di sette fratelli (quattro dei quali moriranno presto). Il padre aveva fama di prestare a strozzo, e i sospetti sulla discutibile origine della sua ricchezza perseguiteranno Giacomo prima e dopo l’uccisione, avvenuta il 10 giugno 1924. Un’accusa che si accompagna a quelle, gemelle, di essere un traditore di classe (avendo abbandonato gli interessi degli agrari) e parteggiare coi braccianti di giorno, salvo poi ritirarsi negli agi del proprio ceto sociale.
 

Funiciello racconta Matteotti attraverso i suoi atti e l’evoluzione del suo pensiero. Sebbene sia stato attivo fin da relativamente giovane, egli diviene una figura di rilievo nazionale con la prima elezione alla Camera (nel 1919), il più votato della sua circoscrizione. Ma questo risultato arriva a valle di una carriera politica travolgente, che lo ha visto seguire tutto il cursus honorum da consigliere comunale a Fratta Polesine, a sindaco di Fratta e di Villamarzana, a consigliere provinciale, fino appunto alla Camera e alla segreteria del Partito socialista unitario, la formazione creata dai riformisti dopo l’espulsione dal Psi.
 

Per capire chi fu Matteotti, Funiciello si affida alle persone che più gli furono vicine: la moglie Velia, il maestro Filippo Turati, il fratello Matteo. Da queste relazioni emerge un uomo coraggioso ma non incosciente, forte delle proprie idee ma non impermeabile a quelle altrui, lucido e rigoroso ma non indifferente o insensibile. Matteotti si impone sulla scena grazie soprattutto alla sua meticolosa aderenza ai fatti e alla sua non comune capacità retorica, che ne fanno rapidamente un esperto dei bilanci pubblici (risanerà quelli dei comuni dove è amministratore, portandoli in pareggio) e un fautore dell’efficienza nell’uso delle risorse pubbliche. Il suo barbaro e vile omicidio – che fa seguito a un precedente rapimento, pestaggio e forse sevizie nel 1921 – è qualcosa di più della soppressione di un nemico da parte degli sgherri del Duce (cinque contro uno): è il tentativo di mettere a tacere una voce, forse l’unica, che risultava davvero insopportabile al regime nascente, perché ne documentava puntualmente e freddamente le malefatte. Del resto, con Benito Mussolini si era già scontrato nel 1914, al congresso socialista di Ancona, a proposito della questione se fosse tollerabile la presenza (assai diffusa all’epoca) dei massoni tra le file dei socialisti. Matteotti condivideva la tesi dell’incompatibilità, ma diversamente da Mussolini era contrario a scatenare una caccia all’uomo. Riformismo contro massimalismo.
 

Dal punto di vista politico, Matteotti è un socialista e aspira alla società senza classi del futuro: ma rifugge l’uso della violenza ed è convinto che all’obiettivo finale si possa arrivare solo attraverso riforme graduali. Funiciello sottolinea l’attualità del suo pensiero. Eppure non è per questo che ha senso ricordare Matteotti. Di politici o intellettuali che, nel corso dei decenni, hanno preso posizioni avanti sui loro tempi sono pieni i libri; e gran parte di essi sono stati, giustamente, dimenticati. L’importanza di Matteotti non sta neppure nelle modalità della sua scomparsa. Funiciello ha un obiettivo polemico: il santino che ne fece Piero Gobetti, il quale gli cucì addosso il vestito del romantico che va incontro alla bella morte. Un’immagine, peraltro, utile anche ai comunisti, i quali non lo avevano mai digerito (ricambiati, come era costume all’epoca). Matteotti insisteva che non si potevano attaccare i fasci di combattimento per le loro violenze politiche, e contemporaneamente invocare gli stessi metodi pur di replicare la Rivoluzione d’ottobre in Italia. Egli aveva chiarissimo che, come il biennio nero era la reazione al biennio rosso, così il socialismo doveva emanciparsi dall’idea stessa della rivoluzione e radicarsi all’interno della (fragile) legittimità democratica. Il metodo è merito in questa riflessione: tant’è che Matteotti accusa Mussolini, fino al suo celebre ultimo discorso parlamentare in cui elenca dettagliatamente i soprusi dei fascisti, di essersi posto al di fuori della legalità e inchioda le istituzioni alla responsabilità di non aver applicato le norme e aver anzi distolto gli occhi. Pochi mesi prima, a marzo, Matteotti aveva reso esplicito che “il fascismo trova nel suo avversario, che gli somiglia, un naturale alleato. Se il comunismo non ci fosse, il fascismo lo inventerebbe”. Il che dà anche l’idea di quanto fossero diffusi il settarismo e le diffidenze tra chi non si riconosceva nel Duce: sicché non mancavano sgambetti e coltellate, che Matteotti non poté evitare ma che neppure negò agli altri quando ne ebbe l’occasione.
 

Quella di Matteotti non è la solitudine ostentata dell’eremita ma l’isolamento del coraggioso, non voluto, come confermano i successi elettorali, ma neppure rifuggito. Matteotti, e questo emerge nettamente dalla ricostruzione di Funiciello, aveva intuito prima e meglio di tutti che il problema non era l’avanzata dei fascisti, ma l’avanzata del fascismo, il quale stava travolgendo tutti i presidi dello stato liberale nell’indifferenza e forse nell’incomprensione degli oppositori. Dopo l’uccisione, Antonio Gramsci – che l’aveva detestato in vita e che neppure adesso era pronto a riconoscerne la statura – lo definì “pellegrino del nulla” e, senza saperlo, aveva ragione. Matteotti finì solo, pestato a morte sui sedili di una Lancia, perché il suo appello a fermare un’involuzione non ancora inevitabile era caduto nel nulla di fatto dello scherno dei fascisti, del cinismo di comunisti e massimalisti e dell’ignavia dei liberali e dei popolari (con poche eccezioni: su tutti, anch’egli torreggiante e inascoltato, don Luigi Sturzo). 
“Tempesta” è un libro da leggere, per sapere e riscoprire, per riflettere e arrabbiarsi. Funiciello è pessimista: “L’esperienza di un leader politico sopravvive all’oblio quando si storicizza e concorre così ad alimentare, con le sue antiche acque, i corsi e i ricorsi delle vicende umane”. Oggi più che mai non c’è bisogno delle spoglie di un Matteotti morto, ma dell’intelligenza vivace del Matteotti in carne e ossa, il cui cuore batte in queste pagine. Forse fievole, forse lontano, ma batte.

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