L’abbondanza di Taylor Swift con la sua saga americana in cui ne ha per tutti

La metamorfosi di Taylor Swift è sorprendente: più diventa famosa – e lo diventa ogni giorno di più, si direbbe, amata, analizzata, seguita, imitata – più lei sembra sforzarsi per umanizzare, rendere accessibile la propria figura, dismettendo ogni residuo di stereotipato divismo e confermando, giorno per giorno, d’essere soltanto una di noi. Stessi drammi, stessi coni d’ombra, insicurezze, problemi irrisolti che abbiamo tutti, stessa predisposizione alle sbandate inattese – chi può giurare di non ricascarci domani? Per esempio, mentre esce il suo nuovo album, “Tortured Poets Department”, undicesimo della sua discografia e destinato a infrangere una moltitudine di record  – vendite, download, istantaneità del suo consumo, visualizzazione dei videoclip eccetera – e di generare altre eccezionalità di marketing e tour, lei insiste sul vezzo di farsi intercettare e riprendere nei più banali e instagrammabili panni della spettatrice (non la protagonista: solo un volto nella folla), partecipando a qualche grande liturgia pop, si tratti di una partita di football teletrasmessa in diretta nazionale, o di arrivare a Indio, nel deserto dietro Los Angeles, per partecipare a Coachella, il festival chic adorato dai californiani. Eccola, in tribuna o sotto il palco, lei è la fan tra i fans, quella che guarda, gode e si entusiasma di fronte alle capacità degli altri, del suo ormai fedele e monumentale fidanzato Travis Kelce, tight end dei Kansas City Chiefs e trionfatore dell’ultimo Superbowl, o rendendosi disponibile a scambiarsi ammiccamenti con la star di turno (incluso Damiano dei Maneskin) che la intravede dal palco, come un’ammiratrice qualsiasi (però guardate meglio: Taylor effettivamente è in mezzo alla massa plaudente, ma attorno a lei ci sono quattro montagne umane a separarla del resto del mondo. Sono le sue guardie del corpo), in gioiosa estasi mentre ascolta i gorgheggi di un o di una collega infinitamente meno famosi di lei.
 

Lo sdoppiamento è degno di uno script di Yorgos Lanthimos: l’american girl più amata del pianeta, la iperstar la cui parabola orami ridicolizza quelle di Madonna e Lady Gaga, mostra di essere una tipa talmente normale da sembrare inconsapevole del proprio trionfo, una tipa che ha milioni di multipli in tutti i quartieri residenziali della nazione, i cui sogni sono sintesi e proiezione di quelli della sua generazione – il grande residuato bianco e suburbano – habitué entusiasta degli stessi rituali collettivi del pop che l’hanno incoronata regina incontrastata. C’è una Taylor lassù sul palco che guarda migliaia di Taylor là sotto, bionde e superficialmente perfette come lei. Strano ma vero.
 

“Tortured Poets Department” è un album diverso da quelli che l’hanno preceduto e forse per questo meglio recepibile da un pubblico estraneo alla sua poetica come siamo noi, quaggiù. È un lavoro più banalmente “discografico” e meno psicologico e dunque non richiede il passaporto blu con l’aquila per essere decodificato e immediatamente amato come diario dei propri giorni condivisi e a stelle/strisce. È un lavoro compatto nella sua ispirazione, a dispetto del fatto che si espanda all’infinito nel tempo, travalicando le due ore e mezza di durata, dal momento che al long playing vero e proprio con 16 brani, se ne aggiungono la bellezza di altri 15, confezionati come extra, come risonanze facoltative, nella versione large. La critica americana non è stata generosa con questa ultima produzione di Taylor: anche per questo gigantismo sono fioccate accuse di sovrapproduzione, di eccessi di autoindulgenza, di una tumultuosa bulimia che dovrebbe imparare a mettere sotto controllo. Sono reazioni nervose da parte degli addetti ai lavori, che in buona parte non si rassegnano alla deflagrante, straripante diffusione di Taylor, del suo verbo e del suo stile, si oppongono invocando una diversa eccezionalità e non accettano che la musica pop prosperi sempre più sulla ripetizione che sulla provocazione.
 

Eppure tutta l’abbondanza, la sbalorditiva prolificità che fa sì che questo sia il nono album (cinque di inediti quattro di remake di vecchi titoli) presentato dalla Swift dal 2019 a oggi, nell’occasione trova una coerenza tranquilla, amalgamandosi con naturalezza attorno a sonorità prevalentemente elettroniche, a performance vocali misurate e alla modularità dei temi delle canzoni. Perché nei pezzi Taylor parla solo e soltanto di sé stessa (e ovviamente di tutti coloro convinti di essere come lei), della sua percezione di un universo scosso da debolezze, timori e ingiustizie, dedicandosi alla macro-osservazione delle proprie tempestose, irrequiete relazioni amorose, risolte nella maggior parte dei casi sotto forma di “revenge song”, canzoni di chiusura dei conti di storie finite male, con tutte le rivendicazioni del caso. Ostentando un fatalismo a cui prima non sembrava capace di affidarsi, un tono più indolente forse mutuato dalla sua nuova amica Lana dei Rey, sacerdotessa dello spleen da incomprensione e dell’incomunicabilità post digitale. 
 

Taylor ne ha per tutti, ma in particolare per gli ultimi fortunati che hanno avuto la ventura di accompagnarsi con lei prima dell’avvento del super-calciatore, in questo nuovo mondo in cui i first husband soppiantano sempre più spesso le first lady, si tratti di Chiara Ferragni o di Zendaya: ecco perciò (per fortuna sono già alle stampe mappe di orientamento nella sua vita sentimentale) brani in memoria dell’attore inglese Joe Alwyn, titolare di una lunga love story con lei, o per un’altra celebrity scapigliata d’oltremanica come Matty Healy, cantante dei the 1975, e perfino per il vecchio pirata della Formula Uno Fernando Alonso, accreditato di un flirt passeggero con la cantante, riguardo al quale lei non si dimostra tenera (“Sono un’Aston Martin / che hai guidato dritta nel fosso”). Tutti signori piuttosto immaturi e un po’ codardi, almeno a sentire le sue liriche, poco rispettosi della ipersensibilità di Taylor, che non è nuova al maniacale istinto di puntualizzare i torti subiti e le occasioni mancate in formato strofa-ritornello. Una panacea per i fans di lungo corso della Swift – quelli che lei una volta ha spietatamente descritto come “trentenni con addosso l’odore dell’erba e dei pannolini dei figli” – che in questo nuovo sterminato canzoniere troveranno innumerevoli motivi di richiamo.
 

La sostanza è che, continuando a foraggiare questa autoreferenzialità, Taylor pubblica un altro album coi fiocchi e di estrema accessibilità, prodotto con gusto e astuzia dallo storico collaboratore Jack Antonoff e da Aaron Dessner dei National e destinato a incontrato accoglienza e successo straordinario, elevando ulteriormente tutti i suoi parametri di ricchezza, popolarità e consumo. Invitando a formulare riflessioni attorno all’impatto e al significato della sua figura a cui viaggia agganciato l’abbondante quarto di miliardo di follower che seguono ogni sua mossa, si cibano delle cronache del suo quotidiano e pendono dalle sue labbra, ogniqualvolta Taylor, giovane donna di opinioni forti, decida di condividerle con loro. Che è il tema che sta per investire mediaticamente Taylor Swift per il 2024. Tale è infatti la dimensione iconica di Miss Americana (come la chiama il doc che ne canta le gesta) che le indagini adesso sono tutte dedicate ad anticipare quale sarà il ruolo e la portata della sua ombra allorché si proietterà sull’imminente contesa per la Casa Bianca, dal momento che una schiera di addetti ai lavori pare convinta, sondaggi alla mano, che Taylor costituisca un fattore effettivo, forse perfino decisivo, nell’orientare la corsa per la Casa Bianca. In primo luogo sospingendo all’iscrizione alle liste elettorali e quindi al voto la moltitudine di americani, in particolare coetanei o più giovani di lei, a cui i politici di professione non sanno o non riescono a parlare, provocando il vuoto pneumatico colmo d’indifferenza che oggi caratterizza, senza precedenti, lo scenario d’oltreoceano. Ma soprattutto perché in gara c’è Donald Trump, uomo per il quale già in passato la Swift non ha nascosto la propria repulsione. Nel 2020 Taylor dichiarava al magazine “V”: “Il cambiamento che ci serve è di eleggere un presidente che riconosca che le persone di colore meritano di sentirsi sicure, che le donne meritano il diritto di scegliere cosa fare del proprio corpo e che la comunità Lgbtqia+ merita di essere inclusa. Voterò con orgoglio per Joe Biden e Kamala Harris nelle elezioni di quest’anno. Sotto la loro guida, credo che l’America abbia la possibilità di avviare il processo di guarigione di cui ha così disperatamente bisogno”. Una sponsorizzazione di impronta psicosociale che mette al passato i programmi e i proclami elettorali e parla di vita reale, il segreto di pulcinella per ridare credibilità alla politica.
 

Per ora  Swift non ha ancora sostenuto apertamente Joe Biden, dai cui uffici non si nasconde che una mobilitazione del genere sarebbe a dir poco graditissima, forse indispensabile per sperare di vincere (sorvolando sulla gaffe del presidente che l’anno scorso in un discorso ha confuso Taylor con Britney Spears. Ma adesso si affretta a far sapere di avere chiarissimo chi sia l’una e chi sia l’altra. E non andiamo oltre, che è meglio). “Il contributo di Taylor Swift è insostituibile”, sostiene il governatore della California Gavin Newsom, vicinissimo a Biden: “Ciò che è riuscita a realizzare mobilitando i giovani a essere consapevoli di avere voce in capitolo nelle prossime elezioni è un contributo potente”. Il corteggiamento è sempre più focoso. Quando il conduttore tv Seth Meyers ha fatto una gag chiedendo al presidente se negava o confermava d’aver volutamente influenzato il risultato del Superbowl in favore della squadra del fidanzato di Taylor, allo scopo di ingraziarsela, Biden è stato allo scherzo e con aria guardinga ha risposto: “Queste sono informazioni riservate”. Biden sa benissimo che una dichiarazione forte di Taylor in suo favore, pronunciata al momento giusto, sarebbe più potente di un finanziamento multimilionario. E lei sembra ben disposta al riguardo, se non altro per fermare l’uomo che, usando le sue parole, “ha acceso l’incendio del suprematismo bianco e del razzismo lungo tutto il suo mandato presidenziale”.
 

E dopo? Tornerà a disegnare la sua personale saga americana, quella che storicizza e al tempo stesso contiene Barbie, Hillary e Kim Kardashian, perché rigenera la potenziale, attraente perfezione di quel modello femminile, prima che i maschi vanitosi, le tentazioni e la sua volubilità non mettano a repentaglio il progetto: “Tu non sei Dylan Thomas / io non sono Patti Smith / e questo non è il Chelsea Hotel”, chiarisce in una canzone a un vecchio spasimante che le ha fatto credere chissà cosa. I tempi del liceo, il campetto di pallacanestro, le feste nelle sere d’estate, lo scoccare della famosa scintilla, i sogni e i pentimenti davanti allo specchio della cameretta. Eccola Taylor, con quel suo magnifico corpo, nella più tonica, palestrata forma fisica. Viene solo da chiedersi se l’America che s’intravede sullo sfondo alle sue spalle sia ancora un paese reale, o soltanto il fondale di una recita di fine anno. 

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