Dazi al 15 per cento, per l’Italia un balzello di 23 miliardi. E una mazzata sull’acciaio

Trovato l’accordo tra von der Leyen e Trump: tariffe al 15 per cento per l’Unione europea. Il presidente americano: “La più grande intesa mai raggiunta”. E ora i conti

Bisognava andare in Gran Bretagna, in Scozia esattamente, per fare un accordo alla giapponese? Bisognava andarci perché così ha voluto Donald Trump che si è rinfrancato nel suo golf resort dedicato alla mamma di origine scozzese? E bisognava anche sentirsi dire che è stata firmata “la più grande intesa mai raggiunta”? Alla fine Ursula von der Leyen a nome dell’Unione europea (o meglio della maggioranza dei suoi paesi membri) ha accettato una tariffa del 15 per cento che non riguarda in realtà tutte le merci, perché Trump ha subito detto che per l’acciaio e l’alluminio non cambia nulla (dunque resta il 50 per cento) e mentre scriviamo non sappiamo che cosa ne sarà dell’automotive sul quale pesa oggi un dazio del 27 per cento né se la Ue ritirerà la tassa su Big Tech.

I termini di scambio mutano ancor più a favore degli Stati Uniti se consideriamo che il dollaro è svalutato rispetto all’euro del 15 per cento. Lo svantaggio, insomma, è pari al 30 per cento. D’accordo il biglietto verde è più forte rispetto alle monete di tutti gli altri paesi, ma è del 4 per cento rispetto alla sterlina, l’8 per cento sulla corona danese l’11,5 per cento su quella svedese. Per l’area euro, insomma, è peggio. Da domani si cominceranno a fare i conti, secondo molte stime un balzello del 15 per cento sull’Italia pesa per circa 23 miliardi di euro, mentre non va sottovalutata la mazzata siderurgica per un paese che ha la più grande acciaieria d’Europa e uno dei comparti più avanzati.

Si può essere contenti perché sia finita? Non esattamente, perché non è ancora finita. Bisognerà calcolare quanto incide l’esborso per acquistare gas liquefatto e armi (150 miliardi di euro?) e che cosa sono i 600 miliardi di extra investimenti negli Stati Uniti per una Unione europea che deve spendere 800 miliardi di euro nella Difesa e non riesce a trovare un accordo sul suo bilancio da duemila miliardi. Dunque la Ue ne esce con le ossa rotte? La conclusione è forse affrettata, tuttavia il senso di sollievo che circola da Bruxelles a Roma passando per Berlino, svanisce a mano a mano che si comincia a entrare nei diabolici dettagli.

Ursula von der Leyen ha accettato il punto di partenza di Trump, cioè che ci sia uno squilibro commerciale con gli Usa e vada riequilibrato, come ha dichiarato oggi, a senso unico e con il protezionismo che più danneggia l’Europa molto più aperta al commercio internazionale (esporta circa un quarto del proprio prodotto lordo rispetto all’8 per cento appena degli Usa). Non solo, il deficit negli ultimi tre anni è stato in gran parte colmato dalla voce servizi e dalle royalties pagate sulla proprietà intellettuale. Da Google a Meta, da Microsoft a Netflix, la supremazia high tech ha compensato lo svantaggio nell’industria manifatturiera, conseguenza di un mutamento di lungo periodo, cominciato fin dagli anni 80, che ha trasformato gli Usa in una superpotenza finanziaria e tecnologica. Potremmo dire che è stata la Reaganomics non l’Organizzazione mondiale del commercio pur con tutti i suoi errori e pasticci.

“Andrà tutto benissimo – ha giubilato Trump – Credo che l’accordo porterà unità e amicizia”. La prova del nove non è nell’economia, dove lo svantaggio europeo è chiaro, ma nella politica di sicurezza, cioè vedremo se il presidente americano terrà una linea ferma contro Putin sull’Ucraina e se lascerà cadere la sua minaccia di mollare la Nato a sé stessa. Sul Financial Times Martin Sandbu ha scritto che cedere “al bullismo” americano è un grave errore per molte ragioni. Intanto l’accordo non sarà definitivo, lo si è visto con Canada e Messico, mentre ci sono già segnali allarmanti anche nei confronti del Giappone. “Non ci sarà nessuna soluzione, ci sarà un caos strumentale collegato a ogni tipo di richiesta in stile mafioso (basta chiedere al Brasile)”.

La Ue aveva alternative? Secondo il quotidiano della City “il compito della Commissione non era raggiungere un’intesa comunque, ma trovare il modo di garantire le proprie economie, le proprie imprese e i propri lavoratori”. Secondo Sandbu gli Usa sono più vulnerabili di quel che si pensa e la Ue più forte di quanto sembra, non solo perché può usare strumenti come l’Aci (Anti coercion instruments) che dà ampi poteri di intervento, ma anche perché gli europei in realtà comprano poche merci prodotte dalla manifattura americana che Trump vuole potenziare, mentre spendono, come la bilancia dei pagamenti mostra, per il digitale e l’intrattenimento made in Usa. Invece di fasciarsi la testa e cedere, insomma, l’Unione europea dovrebbe reagire con proprie politiche industriali, non solo fiscali. Quali siano si sa già, sono scritte nei rapporti Draghi e Letta. E’ ora di farli uscire dai cassetti.

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