Una Nona dal cielo

Nell’estate di 200 anni fa Franz Schubert apriva il cantiere della sua ultima sinfonia

Benché quando si senta citare una Nona sinfonia sia naturale il sovvenire alla mente quel misterioso, suggestivo incipit che, quasi sospeso sull’istante stesso dell’atto creativo, apre il monumentale capolavoro beethoveniano, al culmine del fuggevole eppure intensissimo itinerario di Franz Schubert (1797-1828) si colloca, a compimento del suo percorso, una altrettanto preziosa sinfonia (che come Nona nel suo catalogo sarebbe poi stata individuata) a cui il compositore mise mano proprio duecento anni fa, nell’estate del 1825. Fu l’apertura di un grandioso cantiere che avrebbe visto il suo compimento solo tre anni più tardi, poiché dopo le prime sei sinfonie – che possono, nonostante la loro luminosa bellezza, considerarsi pagine giovanili – e un successivo manoscritto parziale poi completato da altri, nonché quel capolavoro incompiuto che è la Sinfonia in si minore (riportata alla luce solo negli anni 60 di quel secolo) Schubert, nemmeno trentenne, si accostò a un progetto d’eccezionale estensione con una partitura che, destinata a divenire una sorta di testamento artistico, racchiude nelle sue policrome sembianze la poetica, tanto affine alla cultura romantica, del viandante. E’ in tal senso eloquente il fatto che nel 1828, dopo la revisione finale, l’opera venne affidata a un’orchestra la quale, pur animata da lodevoli propositi, dovette arrestarsi dinanzi alle inaspettate arditezze di una creazione che oltrepassava evidentemente, per proporzioni e complessità dell’insieme, i canoni del tempo: il manoscritto della Sinfonia grande restò dunque in un immeritato silenzio fino al momento in cui, un decennio più tardi, Robert Schumann lo avrebbe recuperato tra le carte di Schubert ormai custodite dal fratello.

Ben presto si iniziò ad additare la “celestiale ampiezza” di un’opera nella quale – per usare l’espressione di Piero Santi – “la dilatata, sognante concezione del tempo musicale sembra schiudere orizzonti infiniti e una inesauribile varietà di paesaggi”. Tornano alla mente, in proposito, le parole dello stesso Schubert: “Quando volevo cantare l’amore esso si trasformava in dolore, e se avessi voluto cantare solo il dolore ecco che esso diveniva amore. Così amore e dolore si sono divisi la mia anima”: è infatti propriamente l’immagine del Wanderer a riflettersi in questo eterogeneo, multiforme orizzonte sonoro che, apertosi su uno spazioso e solenne tema dei corni (proprio lo strumento che evoca “lontananza”, quasi a suggerire le proporzioni del cammino che prende l’abbrivo) conduce l’ascoltatore in un vasto, immaginifico percorso nello streben, tra frangenti di raro trasporto emotivo e istanti d’intenso raccoglimento, tra vertiginosi, lirici slanci verso la cantabilità e imbrifere, sotterranee inquietudini, tra repentine, fugaci gaiezze e improvvise incursioni negli abissi più riposti dell’anima. In un paesaggio musicale neralbo ecco ora quella fanciullesca, liliale ingenuità che i testimoni sempre osservarono in Schubert (“E’ un uomo, ma sembra un bambino”, raccontava un amico), ora l’irruzione subitanea e dolente di un cupo presentimento non dissimile da quello che, curiosamente proprio nei giorni in cui l’autore chiudeva questa partitura, il nostro Leopardi fissava tra i suoi versi: “Un affetto mi preme / Acerbo e sconsolato (…). O Natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor?”.

E’ l’inesauribile polisemia della musica che, pur non potendo mai essere ricondotta a parola, evidentemente ben più di ogni parola sa delineare la misteriosa, impenetrabile condizione dell’uomo. Se gli anniversari hanno un senso, esso risiede certo nell’invitarci a porre la mente su ciò che rimane ben più che su ciò che svanisce: è l’esperienza sempre nuova cui apre l’ascolto di quest’opera, l’icastica capacità di descrivere qualcosa di noi stessi e mostrarci con abbacinante chiarezza che, nonostante i due secoli che ci separano da essa, la sua voce rimane profondamente attuale.

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