L’AI ci offre scorciatoie, ma il rischio è spegnere il cervello. Tra delega e pensiero critico, la vera sfida non è tecnologica ma umana: decidere se restare svegli o mettersi in modalità aereo
Due o quattro non è solo una domanda da test d’ingresso universitario o da Tombola postprandiale. E’ anche il bivio esistenziale a cui ci sta portando l’intelligenza artificiale. Due: delega, sintesi, risposta pronta, scorciatoia. Quattro: pensiero, fatica, dubbio, pausa. Due: mi affido al chatbot. Quattro: provo a capire da solo. E la notizia di oggi è che scegliere due potrebbe farci diventare, come dire… un po’ meno brillanti. O, se vogliamo essere scientifici: più rimbambiti.
Lo dice l’Economist, mica uno youtuber con la felpa “AI will not replace me (unless it’s smarter)”. Un recente articolo racconta un esperimento del Mit in cui alcuni studenti, aiutati da ChatGPT nella scrittura di testi, mostravano – con tanto di elettroencefalogramma – un cervello in modalità aereo. Le aree cerebrali legate alla creatività e all’attenzione si spegnevano come lucine di Natale a gennaio. Meno sforzo, più risposta. Meno pensiero, più output. Meno dubbio, più autocompletamento. Una vera delizia per l’efficienza. Un incubo per chi ancora crede nella dignità del neurone.
Ora, non è che l’AI ci renda più stupidi di per sé. Ma ci offre su un piatto d’argento la possibilità di diventarlo con grande comodità. Ci aiuta a smettere di cercare. A non fare il secondo tentativo. A non rileggere. A non pensare. Si chiama “cognitive offloading”, ed è il modo elegante per dire che il cervello si è messo in pantofole e ha chiesto un Negroni. Una volta era la calcolatrice. Poi il navigatore. Poi la lista della spesa condivisa con la nonna. Ora è il chatbot. Inizia tu a scrivere e vedrai che una frase tipo “Come richiesto, le invio in allegato…” sbucherà prima ancora che tu abbia finito la parola “come”. E ti verrà voglia di dire: toh, ha ragione, glielo allego davvero.
Ora: è colpa dell’AI? Ovviamente no. E’ colpa nostra, dei bipedi scriventi che usano questa meraviglia della tecnica come un sostituto dell’attenzione, invece che come uno specchio critico. E infatti le stesse aziende lo sanno. Microsoft, per esempio, sta studiando un sistema chiamato “cognitive forcing” (giuro, non è uno sport da Olimpiadi della logica), che obbliga l’utente a scrivere qualcosa da solo prima di ricevere aiuto. Una specie di “dimostra di averci provato”. L’AI come prof severo che non ti passa la soluzione del problema finché non ti vede sudare. Ci mancava solo la nota ai genitori.
E c’è anche chi propone AI “provocatrici”. Intelligenze artificiali addestrate non a completarti la frase, ma a contraddirti, farti cambiare prospettiva, confonderti un po’, costringerti a pensare di più. Come se servisse una macchina per farti fare quello che il tuo professore di filosofia cercava disperatamente di insegnarti in quarta liceo. Ma a quanto pare sì: serve. L’intelligenza artificiale ci dice: “Io ci sono, ma sei tu a dover decidere se restare sveglio”. Una specie di grillo parlante post-singolarità.
Ecco perché il titolo non è un capriccio. “Due o quattro” è davvero la domanda del secolo. Vuoi il riassunto subito o vuoi perderci un quarto d’ora a pensarci da solo? Vuoi che ti dica cosa pensi o vuoi ancora avere pensieri tuoi? Vuoi la frase che funziona, o vuoi rischiare la tua? L’intelligenza artificiale ci chiede fiducia, certo. Ma soprattutto ci chiede disciplina. E’ come una macchina potente: se non sai guidare, ti schianti. Se la lasci in folle, ti addormenti. Allora tanto vale cambiare strada. Una strada più lenta, più sporca, più imperfetta. Più analogica. Anche se ci vuole più tempo. Anche se brucia un po’. Anche se fa venire i calli. Scegliere quattro non è da snob. E’ da sopravvissuti.