L’allenatore toscano è salito di categoria 11 volte, senza andare mai oltre la Serie C
Una toscanità portata con orgoglio, percepita come un sentimento atavico. E non poteva essere altrimenti per chi, come Paolo Indiani, di mestiere fa l’allenatore in una regione che, proprio di allenatori, ne ha sempre prodotti tanti. Indiani però non è uno come gli altri. Stiamo infatti parlando di un tecnico che non ha mai allenato oltre la C, pur avendo collezionato ben undici promozioni in carriera. E chi dice che sia più facile che vincere uno scudetto o una coppa? Classe 1954, nato a Certaldo (come Luciano Spalletti). Da che famiglia viene Indiani?
“Vengo da una famiglia poverissima, passavo il tempo a giocare a calcio, per la strada, dalla mattina alla sera. Però è stata un’infanzia bella, la ricordo bene”.
Com’è stato il suo approccio col calcio? Ha giocato fino ai 25 anni. Come mai decise di smettere così giovane?
“Perché non mi interessava più giocare a livello dilettantistico. Quando ero più giovane ero considerato una promessa. Tutti pensavano che sarei diventato un calciatore professionista. Invece non andò così ed ebbi un contraccolpo. Venni subito attratto dall’allenare, mi arrivò un’offerta e decisi di fare il salto dal campo alla panchina”.
Come e dove è iniziata la sua carriera da allenatore? Si è definito sacchiano in che termini?
“Ho iniziato a venticinque anni con i bambini della squadra del mio paese, a Certaldo. Esordienti, Giovanissimi Allievi… tutta la trafila nel settore giovanile per cinque, sei anni. Fino alle prime squadre. Per quelli della nostra generazione uno come Sacchi, che ha fatto una rivoluzione, era un punto di riferimento. Mi ricordo che nel 1991, in Eccellenza, eravamo l’unica squadra che giocava a zona”.
Una curiosità: ha fatto fatica ad accedere ai corsi per allenatore professionista (Uefa A e Uefa Pro) non avendo alle spalle un passato da calciatore?
“Il primo patentino, quello da allenatore dilettante, non è stato molto difficile da conseguire. Per accedere al corso del secondo livello ho dovuto vincere tre campionati di Serie D. Ho preso il patentino da professionista, che ti permette di allenare in C, nel 2001. Ai tempi, uno che aveva anche solo una presenza da giocatore in Serie A aveva più punti in graduatoria per entrare al corso rispetto a me, che avevo alle spalle già sei o sette anni da allenatore. Quell’attesa mi ha sicuramente tolto qualche possibilità a livello professionistico. Al Pro invece sono entrato subito, nel 2005, la prima volta che feci la domanda. Un paradosso”.
Come si suol dire: la prima volta non si scorda mai. La sua prima promozione fu con la Sangimignanese, portata in Prima Categoria nel 1983. Cosa ricorda di quell’esperienza?
“Avevo 28 anni, c’erano giocatori più vecchi di me. Com’è stato rapportarsi con loro? È tutta una questione di autorevolezza. Il giocatore ti battezza subito. Si vede che ero portato ad allenare”, sorride il mister.
E ora? Com’è cambiato rapportarsi con la generazione di oggi?
“Dobbiamo adattarci noi a loro. Però ti danno tanto in cambio. A me hanno consentito di rimanere giovane in qualche modo”.
In totale in carriera ha totalizzato 11 promozioni, l’ultima riportando il Livorno fra i pro lo scorso giugno. Qual è la promozione che ricorda con più affetto e quale fu la più difficile?
“La più difficile forse è stata quella con l’Arezzo (portato in C nel 2024), perché non partimmo bene e non fu facile. Quella che ricordo con maggior affetto? Beh sono tutte state belle, come l’ultima a Livorno quest’anno o a Certaldo, con la squadra del mio paese. Se devo sceglierne una dico quella col San Donato Tavarnelle nel 2022, ottenuta contro ogni pronostico. Facemmo qualcosa di straordinario”.
Qual è il segreto di tante vittorie?
“L’aggiornamento è fondamentale. Come devi essere aggiornato nel modo di porti con le nuove generazioni, così devi aggiornarti ad un calcio che cambia. Chi dice che il calcio è sempre lo stesso, sbaglia. Il calcio cambia ogni anno. E tu devi farti trovare pronto. Se non hai voglia di aggiornarti non puoi più fare questo lavoro”.
Una delle caratteristiche del suo percorso tecnico è che, salvo le esperienze a Foligno, Perugia e col Crotone, non ha mai allenato fuori della Toscana. Come mai questa scelta?
“Sicuramente ha inciso il motivo familiare, non volevo spostare la famiglia. Però ci sono state anche delle circostanze che mi hanno tenuto prevalentemente in Toscana”.
Che ricordi ha dell’avventura col Crotone?
“Giocavamo un calcio veramente bello. Dal punto di vista del gioco è stata la squadra che mi ha dato più soddisfazioni. E poi giocavamo in un campionato difficile, com’era al tempo il girone meridionale della C”.
A proposito di Perugia, ci racconta quell’esperienza del 2005? Durò poco a causa del fallimento del club.
“Quando fui chiamato da Alessandro Gaucci per allenare il Perugia, avrei fatto la B o la A. L’estate infatti la squadra umbra fece lo spareggio per la massima serie col Torino. Facemmo una ventina di giorni di ritiro, eravamo in difficoltà e si percepiva l’aria del fallimento”.
Non è mai andato oltre la Serie C. Ha inciso il fatto di non aver avuto un agente?
“L’assenza di un procuratore in passato è stato un mio grosso errore. L’ho preso ora, di recente e vedo la differenza”.
Lei è un po’ il decano dei tecnici toscani. Come mai secondo lei la Toscana ha sempre avuto buoni allenatori?
“Difficile rispondere, però è un dato di fatto che in Toscana nascono allenatori. Forse il carattere. Siamo schietti e questo ci aiuta”.
Come mai secondo lei non si producono più grandi talenti in Italia?
“È come a scuola. Se in prima elementare trovi un buon maestro, ti aiuta. Se non lo trovi è un problema. Lo stesso vale per i settori giovanili. Non ci sono tanti maestri ed è un gran peccato perché i talenti in Italia ci sono e sempre ci saranno. Se a livello di Allievi o Primavera nelle società professionistiche vanno sempre ad allenare ex giocatori alla loro prima esperienza in panchina, come si fa a tirare fuori il talento di ragazzi che hanno bisogno di aiuto per esprimerlo?”.
Ha rimpianti? E come vede il suo futuro?
“Rimpianto è una parola che non mi piace. Dispiacere semmai. Mi sarebbe piaciuto provare ad alti livelli, credo che me lo sarei meritato”.
Ora la sfida Grosseto: riuscirà a riportare fra i pro anche il Grifone?
“Sento una grande responsabilità perché la società mi ha voluto fortemente e sta facendo una campagna acquisti sulla base delle mie indicazioni. Spero di farcela anche quest’anno”.
In bocca al lupo mister!