Oltre l’inchiesta sui grattacieli, contro la città lombarda riaffiora un antico sentimento di fastidio da parte del resto d’Italia
Ah, Milano, la città che tutti amiamo odiare. Questo sentimento riaffiora regolarmente, direbbero i colti, come un fiume carsico, o come un naviglio aperto, e rieccolo in questi giorni, con le inchieste sui palazzoni che al netto delle responsabilità penali sembrano ispirare un vero sabba contro la città lombarda. Un processo popolare, una rivolta degli ultimi, come quando la maestra si distrae e il primo della classe finisce imbruttito dai ciucci. Così improvvisamente ecco cronache inquietanti che narrano di una città dove i grattacieli sorgono in giardino col favore delle tenebre, coi cittadini rimasti stritolati tra nuovi colossali edifici… Milano distopica, Milano capitale di tutti i mali. Certo, magari c’è qualcosa di vero, e poi si vedranno i processi, ma per ora l’unica certezza che riconosciamo a Milano è che è appunto la più odiata dagli italiani. E’ talmente perfetta e diversa dal resto del Paese che appena sbaglia tutti gli altri godono un po’. E’ come Sinner, il campione freddo, talmente perfetto e senza le sbavature nazionali che lo fanno essere, appunto, sospetto di non italianità.
Non contribuisce il fatto che i milanesi poi quando li critichi non reagiscono benissimo, e con le difficoltà si stizziscono. A Covid appena iniziato, il sindaco Beppe Sala coniò il motto “Milano non si ferma” (subito trasformato in slogan e t-shirt, naturalmente in inglese, “Milano never stops”); poi si fermò tutto, e si fermò soprattutto la Lombardia che fece una pessima figura come sanità regionale, rispetto al Lazio, oltraggio supremo in nome di una vecchia rivalità tra le due capitali, quella politica e ufficiale e quella economica e “morale”).
Ma già prima della pandemia, Milano cavalcava l’onda lunga del successo post Expo, il grande rito e lavacro collettivo che nel 2015 aveva rilanciato la città. La Milano di quegli anni era sì inarrestabile e inattaccabile, guai a chi la criticava. Celebre lo schiaffo di Avellino: la risposta stizzita di Sala a chi proponeva la chiusura domenicale dei negozi, nello specifico nel 2018 l’allora vicepremier Luigi Di Maio: “fatelo ad Avellino e non rompete le palle a Milano. Qui abbiamo un modello che funziona e 9 milioni di turisti l’anno” rispose Sala. Già, oltre le palle, anche i turisti. Un altro record che lasciò attonito il resto d’Italia, perché nella vulgata nazionale – in chi magari lontano nello stivale, tapino, ignorava la Fondazione Prada e la villa Necchi e l’Hangar Pirelli e altre magnificenze milanesi – sorgeva un atroce dubbio: ma i turisti esattamente che ci vanno a fare a Milano? A vedere cosa?
Eppure eccome che ci vanno. A un certo punto a Milano cominciò pure a splendere il sole, arrivavano i suddetti turisti e al resto d’Italia le palle giravano sempre più. E più giravano, più cresceva questa hybris milanese un po’ nuova e un po’ tradizionale che confermava la città nell’ingrato ruolo di prima della classe, di capitale della regione più civile del paese. Forse per la sua posizione geografica, forse per le dominazioni scelte, il duro ma salutare influsso degli austriaci, da sempre città votata all’industria, ai commerci, dunque perennemente “sul mercato” e a inseguire le ultime tendenze, almeno quanto Roma con la Chiesa a cercare di rimanere ancorata il più possibile al passato. Ma a Milano si son fatte non solo le sfilate e l’acciaio: anche gli esperimenti politici: è cresciuto il socialismo, è nato il fascismo, è nato pure il berlusconesimo. Tutto questo entusiasmo, tutto questo lavorio anzi lavurà, verbo sacro ai milanesi, la rende però immediatamente sospetta a un paese più rilassato e scassato. Il paese scassato ogni tanto reagisce, gli giran le palle, appunto, e magari ogni tanto gode, rosicando sempre.
Nel ‘19 Peppe Provenzano, allora ministro Pd per il Sud, disse che Milano era un problema. Disse, a un convegno sul tema “Il Meridione visto da Nord”, periglioso fin dal titolo, che “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. “Tutti decantiamo Milano ma non è la prima volta nella storia d’Italia che è un riferimento nazionale. A differenza di un tempo, però, oggi questa città attrae ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae”. Lo sventurato Sala rispose: “Oggi circa 4300, delle 8mila multinazionali che ci sono in Italia, hanno sede a Milano. Evidentemente qui si sentono più rassicurate, vedono che il sistema funziona. Che cosa dovremmo fare: cacciarle via?”.
Lo stesso Sala che oggi un po’ annaspa, che, da manager brianzolo, ogni volta che parlano male di Milano, non si capacita, ma come, con tanto lavurà, come possono non amarci (e anzi ci rompono le palle)? E, il tapino, posta stories di tutto ciò che fa nella sua giornata, assistenza agli anziani, registrazione di bimbi arcobaleno, e tutto il resto che è tanto e che si fa solo a Milano (sorge il dubbio che nell’annaspare social del sindaco ci sia una specie di vendetta carmica: vi ricordate il famoso annuncio del comune di Milano che offriva un posto da social media manager ma a 1.300 euro lordi mensili, una delle tante polemiche sulla Milano “escludente”, uno dei tanti capitoli di questa Milano sott’odio, per usare un’espressione di un celebre milanese acquisito come Leo Longanesi?).
Col Covid poi Milano si è un po’ placata, la hybris è diminuita, ma l’odio dei ciucci, cioè del resto d’Italia, invece che scemare, è misteriosamente cresciuto. Dopo il Covid nessuno vuole più i voti a scuola, nessuno vuole più lavorare in ufficio, nessuno vuole più amare Milano. Esplodono le teorie del “south working”, andare “giù” a vivere e lavorare (salvo poi fuggire come la celebre famiglia scandinava che si era installata a Siracusa, ma scopre che gli insegnanti di inglese non sono inglesi madrelingua!); ci sono gli studenti accampati in tenda di fronte al Politecnico per protestare contro il caro affitti; e la famosa bidella napoletana che ogni giorno preferiva fare la pendolare da Napoli, sempre per il tema dell’immobiliare troppo caro; uno dei capitoli più esoterici, questo della bidella, del grande romanzo d’odio per Milano (poi non se n’è più saputo niente, forse è ancora ferma su qualche Freccia, nello spaziotempo deformato dei ritardi salviniani).
Il rapporto di Milano col sud è sempre stato particolarmente complicato del resto: grande terra di integrazione, ma anche “Rocco e i suoi fratelli”, e ancor oggi non c’è cameriere, tassista, portinaio, notaio che non sia o non abbia genitori meridionali (o non sia romano. Oggi fa impressione proprio la diaspora dei romani a Milano, si incontrano tassisti, perfino controllori dell’Atm romani; alcuni si integrano, altri hanno l’occhio lucido come l’Alberto Sordi vigile urbano in “Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo”, in cui Sordi è uno zelante pizzardone romano che per il troppo rigore viene trasferito a Milano, come dire, in Caienna (e lì, celebre la frase: “el magùn, ammazza che magone”). L’odio per la città si trasferisce poi sul sindaco incolpevole, e l’odio per Sala è confuso e contorto: perché pianta troppi alberi e perché pianta troppi pochi alberi; perché fa troppe ciclabili o perché fa troppo poche ciclabili. Perché ha i calzini arcobaleno (questo il livello).
Gli imputano pure l’inquinamento, altro grande tema: alcuni giurano che una volta sbarcati a Milano cominciano a tossire; c’è stata una fase (le fasi di odio verso Milano sono molto veloci, come tutto a Milano) in cui si compulsavano le varie app meteo più che Tinder o WhatsApp, guardando e mostrando ipnotizzati il mega bubbone giallo dell’aria pessima che sovrasta il capoluogo lombardo, ed era quasi un piacere perverso vedere come le polveri sottili ogni giorno superassero un nuovo record negativo. A un certo punto l’anno scorso si apprese che Milano era addirittura la terza più inquinata del mondo, “dietro solo a Lahore in Pakistan e Dacca in Bangladesh”. E certamente più inquinata di Pechino (qualcuno che c’era stato timidamente obiettava: ma siete proprio sicuri? A Pechino si girava prima delle bonifiche con la maschera antigas). Si scoprì che la società (svizzera) che compilava queste classifiche era specializzata in depuratori d’aria, e la polemica (l’ennesima) si acquietò.
Poi c’è stata la fase sicurezza, che insieme a quella immobiliare ancora perdura e sono le più intense. Qui – di nuovo al netto della realtà, che vede certo dei problemi, ma che paiono in linea con altre città italiane e internazionali – molto sembra che abbiano contato le narrazioni retequattriste, dove per retequattrismo si intende quel format di info-tainment tra l’urlato e l’indignato, a base di case okkupate, zingarelle inseguite, urli di “pickpockets”, tutto in favore di telecamera, che nasce sulla rete Mediaset (anche con un’estetica peculiare, colori accesi, cori greci tipo da Mario Giordano) ma poi ha tracimato sui social. Il retequattrismo negli anni ha dipinto Milano come una specie di Caracas dove sai quando esci di casa ma non sai se tornerai vivo, tra scippi sulla metro, assalti di baby gang, stupri a base di droga nel bicchiere nei locali “della mala movida”. Argh!
Il nemico pubblico numero uno del retequattrismo, il fantasma che in questi anni è sorto, a simboleggiare una milanesità notturna orrida e sgangherata, pericolosa e antiestetica, è il maranza. Cioè un giovane, generalmente immigrato, o di seconda generazione, vestito da cafone (cappellino, tuta acetata Adidas, scarpe Nike, borzello Louis Vuitton rigorosamente tarocco, tatuaggi a schiovere). Te lo ritrovi singolo o in gruppo, sui mezzi o in piazza Duomo, come grande simmetrico della Milano di superficie, della Milano esterno giorno, con le perfette vetrine coi dolcetti di Marchesi e con Giorgio Armani che va ancora in negozio a 91 anni. In questa Milano sotterranea percola l’odio di superficie: Claudio Martelli nei giorni scorsi ha ricordato come Bettino Craxi sosteneva che Milano “si può sviluppare in alto o in basso”, e non intendeva in termini morali, ma a livello infrastrutturale: dunque ecco i grattacieli, odiatissimi, e le metropolitane (che scopriamo odiate pure quelle, al tempo della loro costruzione, da parte di alcuni nel Pci, perché sempre Martelli ha ricordato che erano considerate “di destra”, mentre il tram era “di sinistra”, pensate se ci fossero stati i social, all’epoca! Milano senza metropolitana, peggio di Roma). Intanto però oggi i nuovi milanesi (cioè soprattutto romani) si incontrano in estasi, sul tram a Milano, che girano a vuoto come se fossero su un’attrazione esotica a Eurodisney. Gli stessi che a Roma mai prenderebbero un mezzo pubblico.
Ma tornando ai maranza, parola antica (così venivano chiamati infatti i tamarri nello slang paninaro anni ‘80, portato da Enzo Braschi a “Drive In”) essi esistono anche in versione trapper: Baby Gang, Shiva, Tedua, Simba La Rue, Baby Touché, quest’ultimo specializzato in risse appunto su Rete 4: come quella dell’aprile del 2024 a “Dritto e Rovescio”. Lì si fece cacciare non una, ma ben due volte dallo studio. Fischi, toni isterici, buttafuori Mediaset che lo portano via dallo studio. Il trapper maranzato evoca anche lui un’immagine di Milano violenta, trash, caricaturale. E se la borghesia vecchia e nuova esiste e resiste, e lavora (di nuovo, lavurà) in silenzio, e fa beneficenza e volontariato come si è sempre fatto, non fa però notizia come un’altra categoria di nuovi mostri milanesi. Sono quelli che bazzicavano la cosiddetta Gintoneria, nome di un locale assurto a metafora di una vita notturna non elegante ma malavitosa e laida: Davide Lacerenza, barista dall’aria spiritata, oggi ai domiciliari, “sciabolava” cioè stappava con gesto puntuale (a volte di sciabola, più spesso di carta di credito) bottiglie di champagne (secondo alcuni, era invece uno spumante fatto con le bustine, come Fantozzi quando va con Calboni al night), con la sua Ferrari parcheggiata davanti e tutto un giro di auto lussuose e clienti. Ex fruttivendolo, ex “ragazzo immagine” in discoteca, Lacerenza con la morosa Stefania Nobile figlia di Wanna Marchi hanno rappresentato una Milano non più da bere ma da sciabolare, deformazioni degli Yuppies vanziniani che abbiamo potuto vedere tutti per colpa dei social.
Perché Instagram ha le sue colpe in questo rigurgito di antimilanesità. L’iper esposizione e comunicazione di Milano degli ultimi anni ha infatti corrisposto con l’avvento del social media: che in Italia è diventato un’industria molto milanese. Non solo gli ex vertici della catena alimentare, i Ferragnez, ma anche i vari derivati del mondo influenceristico vivono e operano a Milano, e a Milano hanno base le agenzie che creano e gestiscono questi personaggi, per cui la città a un certo punto si è ritrovata sovraesposta e replicata in tutti i telefoni del mondo. La coppia Ferragnez, a un certo punto simbolo della rinata milanesità, premiata coll’Ambrogino d’oro (e oggi decaduta, e oggi con Fedez che si rivolta pure contro il sindaco!) portava avanti una narrazione di una Milano esasperata e demenziale: ha fatto peggio la coppia del crollo dell’insegna Generali, per CityLife: quartiere divenuto simbolo della stessa nuova Milano dei grattacieli, dello stile burino-chic-con-domotica con troppi metriquadri, troppe tecnologie, troppi soldi, e arredi da calciatori, che potresti essere a Mosca come Dubai. Con altre derivazioni: la casa sul lago di Como, anche quella diventata meme o macchietta della classica villa al lago, con la piscina e il motoscafo pendant e aerodinamici, da cattivo di James Bond. E la beneficenza, terreno sacro della milanesità, del “coeur in man”, che sfugge di mano e diventa l’arma finale che ti si ritorce contro (la vendetta tra l’altro del pandoro sul panettone).
Instagram a Milano ha preso il posto della vecchia pubblicità, sia come fondale che come settore produttivo. La pubblicità infatti oggi è un settore in crisi e in mano alle multinazionali, mentre un tempo era fucina anche identitaria della città (tutti a Milano avevano in famiglia un pubblicitario, come a Roma un ministeriale). C’erano ragioni storiche: a un certo punto si era deciso che se il cinema stava a Roma, la pubblicità sarebbe andata a Milano. Anche qui il cinema aiuta a spiegare il fenomeno: un film seminale è “Susanna tutta panna”, regia di Steno del 1957, con protagonista Marisa Allasio, in una trama sgangherata (un commendatore del settore dolciario non dorme perché non riesce a impadronirsi di una ricetta di una torta, la Susanna in questione, che però è anche una bella ragazza, appunto la Allasio). In questo film peraltro ci sono degli archetipi indelebili di milanesità come la sciura padruna, aggressiva, energica, lavoro-guadagno-pago-pretendo, una specie di Donna Fabia Fabron de Fabrian del Porta (ma forse anche una suocera Ferragnez) che maltratta i maschi di casa: “E’ questa l’ora di tubare con il negozio pieno di gente? Andes! Terun!”. “E’ mica l’ora di fare il bamba! Qui siamo a Milano, qui non si dorme mica! Qui la vita è attiva!”. “Susanna tutta panna” è un pazzesco franchise (direbbero a Milano): il titolo verrà poi usato dalla Invernizzi anni dopo per un formaggino e un pupazzetto che trionferanno in Carosello, format che nasce e cresce a Milano e a cui i milanesi tengono moltissimo. “Susanna” è il grande film sulla pubblicità milanese, è il “Mad Men” meneghino. Si apre infatti sullo skyline del Duomo con le mille insegne pubblicitarie, e la voce fuori campo che spiega: “Questa è Milano di notte. I grattacieli non stanno mica solo a Londra o a New York”, e poi si entra in camera del commendator Botta, calibrato sul reale commendator Motta dei panettoni. Uno dei tanti cumenda del cinema italiano, figura evergreen di ricco a forma di ricco che s’è fatto da solo, dai modi spicci, dalla barzelletta facile e greve. Oltre al succitato commendator Botta, il più celebre e imitato era Angelo Rizzoli, che nella commedia all’italiana è ritratto molte volte (soprattutto nei film di Sordi, che lo odiava, ricambiato. Rizzoli, il più grande produttore cinematografico del Dopoguerra, non produrrà mai un film con l’attore romano).
Quando Instagram e i social hanno preso il posto della pubblicità, è scattato poi uno strano cortocircuito. Troppa Milano di sfondo, con gli influencer delle case, delle creme, dell’attivismo a volte peloso. Forse questo ha accresciuto il fastidio nel resto dell’Italia meno performante. Ma poi non c’è stato scampo, e anche l’odio stesso per Milano è diventato subito un brand e di nuovo una maglietta: “Ti Odio Milano Ti Amo” è il logo che vi appare stampato, anzi è di più, “è il progetto phygital della rivista Nss che celebra il complicato e duplice rapporto dei milanesi con Milano, una città che offre di tutto e di più, ma che allo stesso tempo può essere ‘troppo’ per chi la vive. Il merchandising Ti Odio Milano Ti Amo è ora disponibile sul sito di Nss edicola”. Ci sono anche sciarpe e tazze e altre suppellettili con la scritta, ovviamente in caratteri giusti. Come tutto è giusto nella comunicazione a Milano. Ma a volte è tutto talmente giusto che ti girano le palle, e ti prende una gran voglia di andare a vivere lontano. Magari, perfino ad Avellino.