Javier Cercas nel suo libro “Il folle di Dio alla fine del mondo” racconta il viaggio verso la Mongolia a seguito di Papa Francesco per interrogarlo sulla risurrezione della carne. In ultimo scoprirà che è la fede – non l’incredulità – a ridere per ultima
Si ride tantissimo nell’ultimo libro di Javier Cercas, Il folle di Dio alla fine del mondo (Guanda, 464 pp., 20 euro), in cui l’autore spagnolo segue Papa Francesco fino in Mongolia per chiedergli se sul serio creda alla risurrezione della carne. Non si ride tuttavia per il motivo sospettabile a priori, cioè il contrasto fra il razionalismo dell’autore e l’assurdità di riti e dottrine cattoliche. Le intenzioni iconoclaste di Cercas avrebbero dovuto collocare l’opera nel solido filone le cui radici affondano in Pierre Bayle, se non addirittura negli antichi tentativi di resistenza pagana al primo propagarsi del cristianesimo; stavolta si attua invece un capovolgimento di prospettiva ed è la fede a ridere dell’incredulità. Ridono i responsabili della comunicazione vaticana, che escogitano la trovata di affidare a quel tizzone d’inferno di Cercas la cronaca della trasferta, ridono i missionari di Ulan Bator che, dopo decenni di isolamento, mai avrebbero pensato di trovarsi al centro di una trasferta papale, ride la suora africana alla quale l’autore confida il proprio ateismo, ride ovviamente lo stesso Francesco, che talora si lasciava trascinare ad affermazioni spiazzanti anche da un senso dell’umorismo un po’ rudimentale.
Pagina dopo pagina, Cercas si vede smontare il principio per cui la religione sarebbe la negazione dell’ironia, ipostatizzato dal celeberrimo esempio Jorge da Burgos de Il nome della Rosa, al quale Umberto Eco faceva ammazzare un sacco di gente pur di occultare il libro della Poetica che Aristotele aveva dedicato alla commedia. Trionfa l’ilarità cattolica che affiorava, ad esempio, in Ultime conversazioni, il dialogo con Peter Seewald in cui Benedetto XVI se la rideva beatamente sentendo avvicinarsi la fine, o anche ne L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone (Mondadori, 352 pp., 13,5 euro), in cui i giovani francescani scoppiavano a ridere ogni volta che si ricordavano che, dopo la morte, c’è la vita eterna. Non rivelerò la risposta che Papa Francesco dà a Cercas: bisogna leggere e ridere e piangere ciascuno per conto proprio; dico solo che, dopo duemila anni, inevitabilmente è più corrucciato e serioso chi è convinto che finisca tutto qui.