Un vecchissimo narratore smarrito a Madrid, con flatulenze poetiche, ricordi sfocati e dialoghi immaginari: l’ultimo racconto di Vargas Llosa è una riflessione comica e spietata sulla solitudine della vecchiaia
I bambini le chiamano “puzzette” e quando gliene scappa una in genere scoppiano a ridere. Il narratore centenario dell’ultima opera narrativa di Mario Vargas Llosa ha trovato un nome poetico per le flatulenze che emette copiose e inopportune, le definisce “venti” e: I venti è il titolo di questo racconto, pubblicato quattro anni fa in originale e tradotto adesso da Federica Niola per Einaudi a pochi mesi dalla morte dello scrittore peruviano, premio Nobel nel 2010. Si tratta di un unico lungo monologo di un uomo vecchissimo che si perde a Madrid, perché improvvisamente non ricorda dove si trova casa sua, una stanzetta con bagno a un ultimo piano senza ascensore, e non ha mai pensato di scrivere un biglietto da mettere in tasca col suo nome e indirizzo. Era andato a una manifestazione contro la chiusura del cinema Ideal, uno degli ultimi in città, con l’unico amico che gli è rimasto, Osorio. Ma Osorio se n’è andato via per i fatti suoi, visto che alla manifestazione c’erano solo “quattro gatti”, e tutti “relitti” come loro due, perché i giovani se ne fregano di vedere i film in sala, abituati come sono a scaricarseli su “computer, tablet e cellulari”.
Cosa che il nostro centenario disapprova, fra un vento e l’altro che cerca di dissimulare, come disapprova la maggior parte delle abitudini di quest’epoca tanto diversa dalla sua. Non così Osorio, più mite e interessato al presente. Sono grosse discussioni fra loro, quando si vedono. E si vedono quotidianamente, dopo la telefonata mattutina che si scambiano per verificare di essere ancora in vita. Fanno colazione al bar, e poi partono per una provvidenziale avventura: la manifestazione per l’Ideal, per esempio, o la visita a qualche mostra. Lui è stato giornalista nella vita e Osorio “sostiene di aver insegnato filosofia alle superiori”. E chissà se è un falso ricordo… Non ha importanza. Quel che conta è il loro diverso modo di vedere le cose per potersi accapigliare e restare vivi anche in queste baruffe. Come quando sono andati a una mostra di arte contemporanea, dove di artistico secondo il centenario non c’era proprio nulla, solo schermi e tecnologia, mentre Osorio naturalmente approvava e trovava quei “dipinti immateriali” molto originali. Il protagonista centenario no, vi vede soltanto fuochi d’artificio, “come le immagini dei caleidoscopi, quelle scatolette con i vetri colorati che si muovono, usati per intrattenere i bambini quando ero bambino io”.
E che dire della scomparsa delle librerie? Osorio osa negarlo! Sostiene che a Madrid ce ne sono più che a Londra e a Parigi. Ma sono fandonie “frutto dell’ottimismo patologico di Osorio”, che non vede la differenza fra le vere librerie di una volta e i grandi magazzini di oggi dove si vende di tutto… Ma insomma, questi pensieri, più il ricordo di un grande amore, Carmencita, perduto per inseguire una seduzione fasulla durata un istante, agitano lo smemorato narratore, che più si preoccupa di non riuscire a tornare a casa, più produce venti per niente liberatori, anzi sintomo di qualcosa di incontrollabile che si sta impadronendo di lui. Che non esista nemmeno Osorio? Che tutto il racconto sia il farneticare di una mente obnubilata dall’età, dalla spaventosa solitudine in cui si sprofonda ad aver avuto la “fortuna” di restare in vita dopo la morte degli altri che abbiamo amato, con cui ci siamo fatti compagnia? Vista così, anche l’irresistibile comicità di questa scrittura acquista qualcosa di raggelante. Non c’è niente da aggiungere se non che Vargas Llosa è riuscito ancora una volta a descrivere l’indescrivibile. Invecchiandosi di oltre un decennio, ha raccontato l’abisso in cui probabilmente non aveva nessuna voglia di addentrarsi e di sprofondare.