A Milano c’è un conflitto tra giustizia penale e amministrativa

Certe condotte contestate dai pubblici ministeri costituiscono significativi sintomi di una “cattiva amministrazione”. Ma c’è da chiedersi se un processo penale sia la sede istituzionale per sindacarle

Sull’indagine della procura di Milano che ha coinvolto vari amministratori pubblici, elettivi e non, insieme a consulenti e imprenditori sono state espressi giudizi assai diversi. Alcuni si sono soffermati, più che sui fatti essenziali, su una serie di epifenomeni, la cui presenza può essere al più oggetto di discussione in qualche trasmissione televisiva. Altri hanno messo in luce una serie di conseguenze negative che probabilmente deriveranno dall’indagine, come il rallentamento di alcuni procedimenti amministrativi, che però è un altro problema. Pochi hanno considerato più da vicino le carte e ciò che da esse emerge rispetto ai fatti penalmente rilevanti.

Seguendo quest’ultimo approccio, ci si rende conto che in una serie di casi i pubblici ministeri hanno contestato agli amministratori pubblici di aver indebitamente ricevuto uno o più pagamenti di somme di denaro, asseritamente per prestazioni professionali rese al di fuori del proprio lavoro, ma in realtà per ragioni connesse con l’esercizio delle funzioni dei poteri a essi spettanti. In questi casi, nei quali la procura allega una serie di fatti, cioè i pagamenti ricevuti, e indica il nesso con la norma che disciplina lo svolgimento della funzione amministrativa si è nell’ambito della corruzione, che va accertata nel processo penale.

In altri casi, invece, si contesta agli amministratori di essersi discostati dalle regole urbanistiche che stabiliscono limiti inderogabili di altezza, si rileva l’esistenza di conflitti d’interessi, si censura l’inadempimento del dovere di astenersi. Giova dire subito, a fini di chiarezza, che queste condotte costituiscono altrettanti e significativi sintomi di una “cattiva amministrazione”. Ma ci si può chiedere se il processo penale sia la sede istituzionale per sindacarle. Poniamo, per esempio, che sia davvero “evidente la violazione” della disposizione della legge sul procedimento amministrativo che richiede al responsabile del procedimento e ai titolari degli uffici amministrativi chiamati a rilasciare pareri di astenersi in caso di conflitto d’interessi, anche potenziale. Ciò non comporta automaticamente che sia stata violata una norma penale, soprattutto dopo l’abrogazione di quella relativa all’abuso di ufficio e dopo che la Corte costituzionale ha respinto le eccezioni di incostituzionalità nella sentenza n. 95 di quest’anno. Supponiamo, inoltre, che sia contestata la decisione dell’amministrazione comunale di consentire la costruzione di un edificio in assenza dei piani di attuazione previsti dalla legge, perché secondo i tecnici comunali l’area in cui quell’edificio è collocato è già intensamente urbanizzata. Si può dubitare della legalità di quella decisione. Ma l’istituzione cui l’ordinamento attribuisce il controllo sulla sua legalità è il giudice amministrativo. Se quest’ultimo ha respinto le censure di illegittimità sul presupposto che “al Comune spetta un amplissimo margine di discrezionalità nella valutazione della congruità del grado di urbanizzazione” (Tar Lombardia, sentenza n. 2748 del 2025), sindacabile soltanto in caso di errori manifesti o di irragionevolezza, quella decisione discrezionale non si presta a essere sindacata in una sede diversa.

L’osservatore esterno, pur rispettando la professionalità e la dedizione dei magistrati, non può non richiamare il principio della separazione dei poteri, ricordando che Montesquieu ne vide la ragion d’essere nella salvaguardia della libertà. E aggiungendo che quel principio è in seguito assurto a canone di buon governo anche sotto il profilo dell’efficiente adempimento delle funzioni pubbliche.

Leave a comment

Your email address will not be published.