Dall’accusa di sperperi edilizi alle pressioni sui tassi: il presidente punta a piegare l’indipendenza della Fed, ma il rischio è destabilizzare mercati e dollaro. Ritratto del banchiere trasversale e dal sangue freddo
Dimenticate Milano, almeno per un momento; c’è uno scandalo edilizio a Washington che può far crollare persino il re dollaro. Jerome Powell, presidente della Federal Reserve nominato da Donald Trump nel 2017 e fin da allora odiato, fortissimamente odiato e oggi persino deriso e disprezzato, ristruttura la sede spendendo e spandendo fuori controllo (questa l’accusa) senza rispettare i vincoli della commissione nazionale che sovrintende la pianificazione urbana della capitale. Non verrà costruito nessun grattacielo al posto dell’Eccles Building, il severo e solenne palazzo bianco a forma di H in puro razionalismo marmoreo anni 30, ma ci sono di mezzo 2,5 miliardi di dollari, seicento milioni più del previsto. Troppi parcheggi, troppi sprechi. Il Commander in chief ha nominato tre suoi consiglieri nella commissione e spera di aver trovato l’occasione per licenziare Powell. Abuso edilizio, altro che tassi d’interesse, è questa la buccia di banana sulla quale può scivolare il banchiere centrale? Bizzarro, improbabile, tortuoso? Siamo a Trumpland ragazzi, dove tutto può succedere a cominciare dall’incredibile. Leggete ancora qui.
Anna Paulina Luna, rappresentante repubblicana della Florida, vezzosa brunetta che ama le tute mimetiche, i pastori tedeschi e indossa cravatte rosse come il suo Caro Leader, ha formalmente deferito Powell al Dipartimento di Giustizia per aver presumibilmente fuorviato il Congresso riguardo a un progetto di ristrutturazione finanziato dai contribuenti: avrebbe rilasciato “dichiarazioni materialmente false” durante la testimonianza del 25 giugno 2025. In un post su X, Luna ha dichiarato: “Mentire sotto giuramento è un reato grave, specialmente da parte di chi è incaricato di supervisionare il nostro sistema monetario e la pubblica fiducia”. Nella sua lettera al procuratore generale degli Stati Uniti Pam Bondi (la biondissima devota al Grande Timoniere), l’onorevole deputata ha puntato il dito su due specifiche dichiarazioni. In primo luogo, Powell ha negato l’esistenza nel progetto di una sala da pranzo per vip, nuovi marmi, ascensori speciali, giochi d’acqua e giardini terrazzati. Invece, sostiene la Luna, la presentazione finale alla National Capital Planning Commission contraddice quasi tutte queste affermazioni. Anche quella che l’edificio, inaugurato da Franklyn D. Roosevelt nel 1937, “non aveva mai avuto” una ristrutturazione seria prima del progetto attuale. Invece, dal 1999 al 2003 c’è stato un rimaneggiamento completo. Giovedì il presidente americano si è recato per un sopralluogo inusuale nell’edificio della Fed; caschetto bianco in testa, ha tirato fuori dalla tasca un foglietto con il quale ha fatto il pelo a Jerome Powell (i costi sono lievitati ancora fino a 3,1 miliardi). Il banchiere, accanto a lui, ha replicato e l’alterco pubblico ha fatto notizia. Il vaudeville s’arricchisce di una nuova gag.
Trump sta cercando una scorciatoia giudiziaria, con un uso politico della magistratura e del parlamento, per raggiungere il suo vero scopo: cacciare Powell su due piedi senza aspettare la scadenza stabilita per legge. Le norme costituzionali lo vietano, e il Presidente cerca di aggirarle a modo suo prendendo ancora una volta per il naso l’America e il mondo intero. Ma qual è la vera radice di uno scontro tra governo e banca centrale che non è mai stato tanto violento, inusuale e irrispettoso delle regole? E pensare che nel dicembre 2017, quando era stato scelto per guidare la banca centrale, l’agenzia Bloomberg aveva scritto che Jay Pow, come viene chiamato, era “il tipo di ricco che piace a Trump”. Niente più economisti con “tanta scienza e poca sapienza” amati dai democratici, niente più Larry Summers o Janet Yellen, gente da premio Nobel, né studiosi anche troppo per bene come Ben Bernanke, che ha salvato l’America e l’economia mondiale dal grande crac del 2007-2008 e ha servito sia un presidente repubblicano, George W. Bush che lo aveva nominato, sia Barack Obama che lo ha confermato. Trump voleva un uomo che venisse dalla strada, o meglio da quella strada chiamata Wall Street, uno che sa come si fanno e si gestiscono i soldi. In realtà ha dovuto ingoiare una delusione dopo l’altra: la prima dopo pochi mesi, quando Jay Pow alzò i tassi d’interesse, una mossa che sorprese altri banchieri centrali, a cominciare da Christine Lagarde. La Fed voleva prendere subito di petto l’inflazione tornata a correre dopo un lungo periodo di prezzi minimi e interessi portati sotto zero nell’area dell’euro (i tassi negativi secondo la dottrina economica americana sono un non senso) per fermare la crisi che in Europa si era trascinata per cinque anni, fino al 2012.
Trump sta cercando un escamotage giudiziario per cacciare Powell prima della scadenza. Giovedì l’imboscata alla Fed con caschetto bianco in testa
Secondo la Bce si trattava di “una fiammata momentanea”, i banchieri che compongono il consiglio della Federal Reserve e vengono da varie parti del paese pensavano invece che la crescita, combinata con quella gran quantità di moneta che fluttuava in giro per il mondo, avesse spinto in alto profitti, salari e prezzi. Nessuno poteva sapere quanto sarebbe durata, ma meglio mettere le mani (anzi i tassi) avanti. Avevano ragione loro, ancor più dopo che la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina avevano fatto saltare tutti i tradizionali parametri. Ma Trump anche allora reagì a modo suo. Non conosce granché di macroeconomia, ma sa cos’è il consenso politico: il popolo Maga protestava e il loro mago della pioggia temeva di perdere le elezioni di medio termine, che infatti furono un fiasco. Powell finì sulla graticola, ma imperterrito continuò il suo percorso verso la “normalità monetaria”.
Con le elezioni del 2020 e l’assalto al Campidoglio la democrazia ha fatto un salto nel buio (per parafrasare l’epigrafe del Washington Post) dal quale non è più uscita. Tuttavia Joe Biden, arrivato alla Casa Bianca, rinuncia alla voglia di rivalsa e conferma Powell. Un altro schiaffo per Trump, anzi una vera e propria coltellata alla schiena, un tradimento. Il suo “banchiere ideale” è un uomo trasversale, un servitore dello stato? Macché, un Arlecchino servitor di due padroni. E farlo fuori diventa quasi un dovere, non appena The Donald riprende il potere nel novembre scorso. A norma di legge Powell scade nel maggio del prossimo anno. Troppo tardi per Trump, che gli intima di ridurre i tassi d’interesse, poi comincia il fuoco incrociato, cerca di incoronare un presidente ombra, infine ricorre all’arma giudiziaria che è sempre una lama a doppio taglio.
Prima di capire cosa cova sotto il fumo delle ripicche, degli odi, delle vendette, ricordiamo chi è Jerome Powell. Non ha mai recitato da prim’attore, non è mai stato davvero sotto i riflettori, è un uomo di legge timorato di Dio, un avvocato che negli anni d’oro della finanza – l’era dell’edonismo reaganiano – si è messo anche lui a far soldi. Non è diventato miliardario, ma con un patrimonio stimato nel 2019 di 55 milioni di dollari è il più ricco di tutti i membri del board della Fed e dei suoi predecessori, salvo forse Alan Greenspan. Sposatissimo, tre figli, un tipo da famiglia e country club. Nato a Washington nel 1953, abita poco lontano in una zona residenziale della capitale, sulla collina che si chiama Chevy Chase e fa parte dello stato del Maryland. Ha cinque fratelli, il padre avvocato, veterano della Seconda guerra mondiale, il nonno decano della facoltà di legge alla Catholic University. Jerome si laurea a Princeton con una tesi politica sul Sudafrica, fa l’assistente di un senatore repubblicano della Pennsylvania, si specializza alla Georgetown e poi si sposta a New York, dove esercita come avvocato fino al 1983. Quando scoppia il big bang finanziario si butta nella prestigiosa banca d’investimento Dillon, Read & Co. Ma Washington continua a tentarlo ed entra nel dipartimento del Tesoro durante la presidenza di Bush padre, che lo nomina sottosegretario. Quando Bill Clinton va alla Casa Bianca, Powell torna agli affari, che non lascerà più, diventando partner del gruppo Carlyle. Si distingue in varie iniziative bipartisan per mettere un tetto al debito americano, ed è Barack Obama a nominarlo nel 2011 consigliere della Fed in quota repubblicana. Trump nel 2017 lo pesca dal board della Banca centrale perché glielo raccomanda Steven Mnuchin, il finanziere nominato segretario al Tesoro. Powell si rivelerà più di sinistra durante il Covid, quando deciderà di pompare moneta e di appoggiare i sostegni finanziari anche come ponte per il dopo pandemia. Ma è convinto che si debba tenere sempre la barra dritta per garantire sia la più bassa inflazione possibile, sia la più alta occupazione possibile: questi i due mandati della Banca centrale americana, che entrano spesso in contraddizione.
Nel 2017, quando fu scelto per guidare la Fed, Bloomberg scrisse che Jay Pow (così viene chiamato) era il “tipo ricco che piace a Trump”
Jay Pow è un uomo trasversale anche in politica economica e monetaria, una qualità che per Trump e l’ala più radicale dell’Amministrazione diventa una colpa. Una volta Guido Carli disse che il banchiere centrale era sempre trafitto da tutte le parti come san Sebastiano (e dietro la sua scrivania teneva un magnifico ritratto rinascimentale). Powell è stato rimproverato per aver tollerato – anzi, gonfiato – la bolla di Wall Street, poi per aver cominciato a vendere il debito accumulato dalla Fed, e ancora per aver alzato troppo presto il costo del denaro nel marzo 2022, portandolo fino al 5,25 per cento con una serie di continui aumenti protratti fino al luglio 2023. Quella volta gli attacchi erano arrivati da sinistra e fu Alexandria Ocasio-Cortez a chiederne la testa nel 2021. Elizabeth Warren lo definì persino “un uomo pericoloso”. Biden non diede retta a nessuno e lasciò in eredità a Trump un banchiere centrale capace e prudente, che The Donald ha cominciato subito a martellare. Non appena insediato ha chiesto esplicitamente che la Fed riducesse i tassi d’interesse, di fronte al muro di gomma ha annunciato che avrebbe licenziato in anticipo il banchiere centrale. “Non può a norma di legge”, è stata la risposta di Powell, fermo sulla sua posizione. Ma i tassi di riferimento oggi al 4,25-4,50 per cento vanno ridotti o no? “Li avrei già tagliati se non ci fossero state le tariffe”, ha spiegato Jay Pow, e a Trump è salito il sangue agli occhi.
Appena insediato, Trump ha chiesto che la Fed riducesse i tassi d’interesse. Powell ha detto che li avrebbe tagliati se non ci fossero stati i dazi
Per sapere chi ha ragione in questo duello rusticano diamo uno sguardo a come va l’economia americana: inflazione, posti di lavoro, crescita, debito pubblico, deficit. Un sondaggio del Wall Street Journal tra 69 influenti economisti ha rivelato un certo ottimismo, nonostante i dazi. Il prodotto lordo dovrebbe aumentare di un punto percentuale del prossimo trimestre, non un granché, ma comunque meglio dello 0,8 per cento previsto in precedenza. L’anno prossimo la crescita dovrebbe rimbalzare all’1,9 per cento. Niente recessione, dunque? Un terzo degli economisti è ancora convinto che ci sarà, perché l’impatto delle tariffe si farà sentire dalla seconda metà dell’anno. Ma in aprile la quota dei pessimisti era al 45 per cento. La disoccupazione continua a scendere (è appena al 4,1 per cento a giugno), mentre l’inflazione di fondo (quindi senza energia e alimentari freschi) s’aggira attorno al 2,8 per cento. Secondo le stime, i dazi dovrebbero aggiungere uno 0,7 per cento ai prezzi al consumo. Non sono, quindi, tutte rose e fiori: le importazioni ad esempio sono aumentate già del 26 per cento perché imprese e consumatori hanno fatto scorta. Il Big and Beautiful Bill aggiungerà uno 0,2 per cento al pil quest’anno e lo 0,3 per cento nel 2026, ma la deportazione di immigrati toglierà altrettanto, quindi l’insieme delle politiche domestiche di Trump non darà nessun contributo alla crescita. Se è così, la cautela di Powell viene premiata: di fronte al tumulto di borsa seguito al Liberation day, ha dimostrato gran sangue freddo e non si è mosso aspettando che la febbre si abbassasse. Se sarà firmato un accordo decente con l’Unione europea, è sperabile che si raggiunga una certa stabilità dopo le vacanze estive. A quel punto la banca centrale potrà cominciare un cammino verso la riduzione del costo del denaro, sia pur sempre a piccoli passi. Basterà a Trump? Scommettiamo di no.
Con uno sguardo all’economia americana, emerge che l’insieme delle politiche domestiche Maga non darà nessun contributo alla crescita
Il 16 luglio scorso è uscita l’indiscrezione che il Presidente aveva già firmato la lettera per far dimettere Powell. E il segretario al Tesoro Scott Bessent lo avrebbe convinto a lasciar perdere. Poco dopo, squillavano le trombe per lanciare la campagna sulla ristrutturazione della Fed. Bessent ha già fatto la colomba nel nido dei falchi a proposito dei dazi e su Powell ha usato le sue arti per convincere i repubblicani a non cadere in trappola: un attacco frontale alla Fed avrebbe un impatto pesante sulla borsa, sul dollaro, sull’intera credibilità degli Stati Uniti. Il segretario al Commercio Howard Lutnick gli ha dato una mano, ma adesso pensa solo a chiudere le troppe partite aperte sul commercio internazionale. Il Wall Street Journal batte sul tasto più dolente: l’indipendenza della banca centrale. La ristrutturazione edilizia della Fed è “un puro pretesto”, ha scritto in un editoriale il quotidiano posseduto da Rupert Murdoch. La Luna (Anna Paulina) “sta cercando di criminalizzare quella che è invece una questione di politica monetaria” e che spetta alla banca centrale; mettere in discussione l’autonomia della Fed è un grave pericolo.
“I politici pensano quasi sempre che il costo del denaro debba essere più basso di quel che è, per questo abbiamo bisogno di una banca centrale indipendente”, ha commentato Alan Blinder, considerato uno dei più influenti economisti al mondo, professore a Princeton ed ex vice presidente della Federal Reserve negli anni ‘90 con Alan Greenspan al comando. “La sola possibilità che venga sbriciolata la porta antincendio può riverberarsi sui mercati in modo imprevedibile”, insiste il Wall Street Journal. “Gli Stati Uniti stanno ancora scuotendosi da anni di inflazione ben superiore all’obiettivo del 2 per cento, mentre gli ultimi dati cominciano a mostrare gli effetti negativi delle guerre commerciali sui prezzi. I banchieri centrali e gli investitori di tutto il mondo aspettano di vedere la prossima mossa della Federal Reserve”. Senza dimenticare che l’enorme pila di debito rende meno sicuro comprare dollari: il biglietto verde non è più un bene rifugio. Oltre tutto, se il processo per la ricerca del successore è già avviato, a che pro accelerare i tempi? Molti dicono che sarà proprio Bessent il prossimo banchiere centrale, ma non è detto. Dipende dall’umore di Trump nei prossimi mesi, lunga è la strada fino a maggio prossimo. E chissà se la colomba volerà ancora.