Lo sloveno non ha regalato nulla. Vingegaard non è da meno, ma gli servirebbe un pizzico di guasconeria
Che luglio abbia quattro giorni in più dopo domenica 26 è un errore di calendario. Luglio finisce a Parigi, nel momento esatto nel quale l’ultimo dei premiati scende dal palco delle premiazioni e il Tour de France diventa un passato recente da ricordare con dolcezza e un po’ di malinconia.
Va così da più di un secolo.
Ci sono stati anni nei quali la malinconia era poca, perché la Grande Boucle aveva offerto uno spettacolo non eccelso e di tappe degne di essere conservate nella memoria ce ne erano poche. Sembra passata una vita da allora. Quando ci si diverte il tempo accelera e i ricordi si intasano.
Da domani si affolleranno di nuove pedalate, nuove fughe e nuovi inseguimenti, nuovi sorrisi di vittoria e nuovi ghigni di disappunto. Soprattutto, ancora una volta, della faccia di Tadej Pogacar, dei suoi scatti, dei suoi sorrisi gentili distribuiti a destra a manca, anche quando la fatica del pedalare e la tensione della sfida li smorzano.
Il volto di Tadej Pogacar è però un volto a metà, che si sovrappone e si interseca con quello di Jonas Vingegaard. Sono un Giano bifronte in bicicletta, perché se uno vince l’altro perde, va così almeno a logica lo sport. Eppure non perde davvero perché nelle loro accelerazioni, nei loro scatti, in quei tentativi di sbarazzarsi l’uno dell’altro Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard danno vita a un solo macrorganismo capace di spiegare al meglio, e senza bisogno di parole, perché noi appassionati pedalatori ci ostiniamo a pedalare e a concederci ore lontano da tutti e da tutto pur di guardare uno sport che ha la nomea di essere noioso. Viene sempre più spesso il dubbio che chi sostiene che tutte le opinioni debbano essere ascoltate e rispettate stia dicendo una fesseria.
Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard hanno animato i pomeriggi delle ultime tre settimane, delle ultime tre nostre settimane. E va dato merito a entrambi, ma soprattutto, forse paradossalmente, al danese della Visma | Lease a bike. Perché se alla prima occasione montana, salendo verso Hautacam, Jonas Vingegaard le ha prese malamente dallo sloveno, ha poi pensato bene che l’arrendevolezza è un’idiozia tanto grande quanto il fatalismo. Perché non solo noi appassionati abbiamo memoria dei momenti passati, anche i corridori. E lui, Jonas Vingegaard, si ricorda che quell’uomo che vince tutto e con grande semplicità, facendo cose che sembrano impossibili, lo aveva battuto e anche più di una volta.
Sono diversi Tadej Pogacar e Jonas Vingegaard, c’entrano nulla uno con l’altro, almeno per carattere. Lo sloveno attrae simpatie, ha l’innata capacità di risultare simpatico. Il danese assai meno, ha pochi sorrisi e il volto di chi sembra sempre a disagio. Eppure sono identici, animati da una voracità assoluta, da una volontà totalitaria di affermare il proprio predominio.
Sono due che, fosse solo per loro, vincerebbero tutte le corse alle quali partecipano, tutte le tappe del Tour de France. Tadej Pogacar ci riesce più spesso perché non ha bisogno delle grandi salite, gli basta uno strappo qualsiasi per imporre la propria volontà.
Sono due ai quali non frega assolutamente nulla di ingraziarsi i rivali, di non scontentare troppo i più concedendo, com’era un tempo, vittorie di tappa a pioggia.
Soprattutto Tadej Pogacar è riuscito a eliminare la lottizzazione al Tour de France, la spartizione delle occasioni di vittoria per fare in modo di non scontentare troppa gente.
Anche quest’anno lo sloveno ha rispolverato la prima regola dell’essere Tadej Pogacar: “Non sono qui per farmi dei nemici, ma questo è il Tour de France. Non ci si può tirare indietro se si presenta l’opportunità di vincere una tappa. Non sai mai quando sarà il tuo ultimo giorno. Sinceramente, la mia squadra mi paga per vincere, non per regalare. Ho una grande squadra alle spalle, che lavora ogni giorno per farmi arrivare al Tour nelle migliori condizioni possibili. Se decidessi, da solo, di iniziare a regalare delle opportunità, la squadra non sarebbe contenta di me”, ha detto a Cyclingnews dopo la vittoria nella cronoscalata che terminava a Peyragudes. Ha ribadito una volta ancora, una volta di più che quando lui può vincere, vince. E fa di tutto, o meglio, tutto il possibile, per tenere fede a questa visione del ciclismo. Non lo ha fatto solo a parole.
Ragiona così pure Jonas Vingegaard. Solo che poi si impaurisce.
C’è qualcosa di conservativo in lui, forse una capacità di empatia maggiore per le sofferenze altrui rispetto al campione sloveno. Soprattutto una tendenza a lasciarsi prendere dall’indecisione quando invece servirebbe un surplus di convinzione e guasconeria.
È per tutto questo che ogni fine luglio, e quest’anno luglio termina domenica 26, ripensando a quello che è stato, ci resta quella malinconia che resta al termine di un bel viaggio. E il Tour de France è sempre un gran bel viaggio, uno di quelli che non solo ci mettono davanti agli occhi qualcosa di nuovo, ma sono capaci di stimolare la nostra fantasia, farci immaginare qualcosa di diverso.
È per tutto questo che ogni fine luglio, guardandoci indietro, pensando a quel che è stato, ci diciamo che certo è finito, ma che in fondo va bene così, perché ci siamo divertiti, ci siamo sentiti vivi a vedere quegli uomini affannarsi e sfinirsi su di una bicicletta per tre settimane, lungo strade che forse non pedaleremo mai, ma che un giorno…, non si sa mai. Non è anche questo il bello del ciclismo? Ci lascia dentro possibilità infinite, una voglia assoluta e totalitaria di pedalare e, pedalando, immaginare che un giorno sì, un giorno vedremo anche noi quei posti, saliremo anche noi in cima a quelle salite.