Il gruppo vuole un’assicurazione sulla sua sopravvivenza nella Striscia. Conta sulla pressione contro Israele per ottenerla. L’effetto dell’annuncio di Macron
Il presidente americano Donald Trump, per la prima volta dall’inizio di luglio, ha ammesso che riguardo alla possibilità di un accordo tra Israele e Hamas per un cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi non ci sono novità positive. Per settimane, il capo della Casa Bianca e i suoi collaboratori avevano diffuso ottimismo, dicendo che l’intesa era sempre più vicina. Un accordo invece si allontana e se ne sono accorti anche gli americani che giovedì hanno ritirato la loro squadra negoziale da Doha per trovare una soluzione alternativa per liberare gli ostaggi. Gli israeliani hanno fatto altrettanto, ma inizialmente avevano preferito presentare l’iniziativa come un pro forma e non come il segnale che i negoziati con Hamas stavano andando molto male. L’ottimismo americano è sempre stato esagerato, ma giovedì qualcosa è andato più storto del solito.
Hamas ha presentato nuove richieste per arrivare all’accordo anziché rispondere alla proposta già sul tavolo. Le richieste non sono residuali, il gruppo ha stravolto alcuni dei punti chiave dell’intesa. Il primo riguarda la seconda fase: l’accordo prevede che, dopo un cessate il fuoco di sessanta giorni, Israele e Hamas devono raggiungere la fine della guerra. I sessanta giorni servono anche a discutere come arrivare al cessate il fuoco definitivo. Hamas vuole che Israele si ritiri completamente e deponga le armi anche se le parti non riusciranno ad accordarsi per la seconda fase. La seconda richiesta riguarda la lista dei palestinesi che Israele dovrà scarcerare per avere in cambio il ritorno degli ostaggi. Secondo la proposta di accordo, Hamas in sessanta giorni dovrà liberare dieci ostaggi vivi e restituire i corpi di diciotto morti e vuole che dalle carceri israeliane escano duemila palestinesi condannati all’ergastolo e duecento arrestati dopo il 7 ottobre, inclusi i terroristi dell’unità Nukhba che hanno preso parte all’attacco contro i kibbutz. Hamas quindi vuole un’assicurazione sulla vita, rimanere nella Striscia senza soldati israeliani e con gli ostaggi come leva da usare contro Israele. I terroristi ritengono di essere in un momento in cui possono alzare la tensione e chiedere di più. Vedono la pressione che aumenta su Israele e, nonostante i mediatori qatarini avessero esortato i terroristi ad accettare la bozza di accordo, hanno pronunciato un altro “no”, sonoro e pericoloso, per la vita degli ostaggi e della popolazione di Gaza. Hamas non è più il gruppo capace di attaccare Israele, è un ricordo rispetto a quel progetto, ma riesce ancora a imporsi sui tavoli negoziali.
Sono due le variabili che hanno messo i terroristi nella possibilità di bloccare l’accordo: la prima è la condizione disumana in cui sono ridotti i civili a Gaza. Nonostante Hamas sia responsabile della condizione dei gazawi, è su Israele che ricade l’onere dei rifornimenti e su Israele si scatena la pressione internazionale. Controlla cosa entra nella Striscia e ha i suoi soldati nel 75 per cento del territorio di Gaza, ieri ha accordato alla Giordania e agli Emirati Arabi Uniti il permesso per lanciare aiuti umanitari dal cielo. Inoltre dentro Israele, i cittadini chiedono un accordo subito a ogni condizione che permetta a tutti gli ostaggi di tornare immediatamente. Per Hamas anche la decisione del presidente francese, Emmanuel Macron, di riconoscere a settembre lo stato palestinese è un’occasione per pretendere ancora di più un accordo. Il gruppo ha rivendicato l’annuncio di Macron come un suo successo personale, nonostante il presidente abbia detto che parte del processo per arrivare alla costituzione di uno stato palestinese debba essere il disarmo di tutti i gruppi armati, incluso Hamas.