Contro i giornali parassiti delle procure

“Il gossip non c’entra con le inchieste. Non solo i magistrati hanno il potere di decidere della vita delle persone. Anche i cronisti, ma fingono di non saperlo. La sinistra che regala il garantismo alla destra? Follia”. Parla Michele Serra

Che cosa succede quando un’inchiesta giudiziaria tende a occuparsi più di fenomeni sociali che di responsabilità individuali? Che cosa succede quando l’indagine di una procura viene trasformata dall’opinione pubblica in una condanna fino a prova contraria? Che cosa succede quando la politica cerca di utilizzare un processo mediatico per regolare i suoi conti interni? E che cosa succede quando il mestiere del giornalista, dinanzi ai meccanismi perfidi, demoniaci, tossici, del circo mediatico diventa un surrogato dell’azione della pubblica accusa, una buca delle lettere delle carte delle procure, un tassello non richiesto del triste mosaico del moralismo italiano? Michele Serra è un giornalista che tutti conoscete. Da anni, su Repubblica, si dondola con allegria e con imprevedibilità sulla sua “Amaca”, una rubrica quotidiana in cui Serra si diverte spesso a psicoanalizzare i tic ricorrenti del progressista collettivo. E pochi giorni fa, domenica per l’esattezza, è uscito dal recinto della sua rubrica, su Rep., e ha scelto di utilizzare parole forti e coraggiose per prendere a ceffoni tutti coloro che trent’anni dopo Tangentopoli non hanno ancora imparato a fare i conti con le conseguenze negative generate da una stagione di pericoloso attivismo giudiziario. “Dopo Tangentopoli”, ha scritto Serra, “ci vollero anni per capire che contare sulla magistratura per cambiare le classi dirigenti significa, sostanzialmente, rinunciare a fare politica”.

Il riferimento di Serra, naturalmente, è ai fatti di questi giorni, è all’inchiesta milanese, è al processo al “modello Milano”, è alla gogna riservata ai protagonisti di una stagione di sviluppo urbano trasformata con disinvoltura nella punta dell’iceberg di un nuovo sistema criminale. E incuriositi dalle parole di Serra abbiamo fatto squillare il suo telefono per verificare se, osservando i tic ricorrenti del progressista collettivo, sul lettino fosse rimasto o no qualcosa in più su cui riflettere. Nel suo editoriale di domenica, Serra ha ammesso che trent’anni fa molti giornalisti che si sono ritrovati a fare i conti con la stagione di Mani Pulite erano “più impreparati” rispetto a ora dinanzi “all’improvviso cozzo tra potere giudiziario e potere politico”.



E a Serra abbiamo chiesto se quella annotazione era lì a testimoniare una convinzione che ci è sembrato di intuire: ora che in teoria vi dovrebbe essere più esperienza e meno impreparazione, si dovrebbe stare attenti o no a utilizzare tutti un approccio meno ideologico nel seguire un’inchiesta, senza trasferire ai magistrati compiti di giustizia sociale che dovrebbero restare lontani dalle procure? Dice Serra: “Voglio dire che se l’esperienza servisse a qualcosa, dovremmo tutti avere imparato che l’apertura di un’inchiesta giudiziaria è una notizia, a volte una grossa notizia, a volte addirittura una notizia storica. Ma va trattata come tale: una cosa che accade e sulla quale bisogna documentarsi, possibilmente senza avere come unica fonte le carte dell’accusa. Lo schiacciamento di punti di vista tra le procure e molti giornali, tra l’altro, è anche una forma di parassitismo. Dei secondi, ovviamente”. Lo spunto di Serra ci ingolosisce e facciamo con lui un passo in avanti. Tema: qual è la peggiore eredità che l’esperienza di Tangentopoli ha lasciato all’interno del mondo del giornalismo? E, soprattutto, quali sono le prassi e i metodi da non ripetere? “Quanto a prassi e metodi, come sopra: ai media sarebbe richiesta indipendenza di giudizio e possibilmente serenità nel racconto delle cose. Io vedo soprattutto un gigantesco problema di linguaggio. Di certi titoli non vale nemmeno la pena parlare, per quanto sono urlati, o ammiccanti, o calunniosi. Peggio ancora, più subdolo e tossico, è che in quasi tutte le cronache sul malaffare, quello vero e quello presunto, ogni casa diventa una ‘lussuosa villa’ anche se è una villetta a schiera, ogni vacanza una ‘vacanza da favola’, anche se è un weekend a Pinarella di Cervia, ogni retribuzione un ‘lauto stipendio’ anche se è una consulenza da cinquemila euro all’anno. L’idea di partenza è quella di una umanità ingorda, degenerata e disposta a qualunque cosa pur di arricchirsi. Se sei Balzac puoi permetterti di dirlo, se no è meglio attenerti ai fatti”. Scommettere sulla magistratura per cambiare le classi dirigenti significa, come detto, sostanzialmente rinunciare a fare politica. Proviamo a entrare con il bisturi in questo punto. Quali sono i principali segnali che la politica deve cogliere, a destra e a sinistra, per capire quando si sta scegliendo di scommettere su quel risultato? E quali sono i segnali che non dovrebbero essere trascurati per capire quando ci si ritrova di fronte a una magistratura che cerca di trovare attorno a sé più consenso che prove?

“La faccenda è complicata e non vorrei che la mia sintesi risultasse superficiale. Ma è evidente che la politica degli ultimi anni, forse decenni, è largamente gregaria dell’economia, che stabilisce da sé sola modi e tempi del cambiamento sociale. Per la destra questo non è un problema, anche il populismo più sfrenato e più sboccato alla fine è ben felice che i ricchi vincano. Per la sinistra, invece, è un problema gigantesco, perché la sua ragione sociale è la redistribuzione del reddito e l’equilibrio dei poteri. Diciamo che entrambe, per ragioni opposte, sentono di contare sempre di meno, la destra perché ha stravinto, la sinistra perché ha perso. Ma con tutto questo la magistratura c’entra ben poco: fa il suo mestiere, spesso bene e qualche volta male, che è accertare i reati e perseguirli. Condannare i colpevoli e scagionare gli innocenti. Se la politica fosse più forte, e riconquistasse centralità e capacità progettuale, della magistratura si parlerebbe molto di meno”. Chiediamo ancora a Serra cosa pensa quando vede l’opinione pubblica trasformare un’inchiesta giudiziaria in un’occasione per fare sociologia. E cosa pensa quando nel dibattito pubblico vede emergere un approccio di questo tipo: l’inchiesta è quello che è, d’accordo, ma ci offre comunque l’opportunità di ragionare attorno a un tema. Ci domandiamo: ma da quando le inchieste si devono occupare di fenomeni e non di responsabilità individuali? “Quello dell’inquirente è un lavoro affascinante, penso che alla fine la tentazione di sentirsi anche sociologo, interprete dell’epoca, sia inevitabile. Poi se è intelligente sta nel suo, dunque individua i reati e li chiama per nome, punto e basta. Se è vanitoso, esagera e nelle sue carte tenta l’affresco sociale e, purtroppo, emette il giudizio morale. Io penso che la parte più avvertita dell’opinione pubblica ne sia infastidita. Quella già predisposta al moralismo facile invece ne è entusiasta, e i suoi media di riferimento ci sguazzano”.

A Serra, negli ultimi tempi, compiendo un gesto non rituale per un intellettuale progressista, è capitato spesso negli ultimi mesi di notare quanto possano essere sgradevoli e pericolose le pubblicazioni delle intercettazioni penalmente irrilevanti sui giornali. Chiediamo dunque a Serra di tornare su questo punto provando a rispondere a una doppia domanda. Primo: perché non se ne riesce a fare a meno? E secondo: perché i giornalisti dovrebbero imparare a muoversi dinanzi agli atti giudiziari non come se fossero la buca delle lettere delle carte delle procure ma come se fossero individui in grado di proteggere la privacy di un cittadino anche scegliendo di non pubblicare tutte le intercettazioni offerte da una procura? “Una cosa che ripeto sempre, ormai da vecchio pedante, è che la ‘questione giudiziaria’ italiana ha tre protagonisti. I politici, i magistrati, i giornalisti. Le prime due categorie sono sul ring da decenni, esposte al pubblico, e se ne danno e se ne dicono di tutti i colori. La terza non ha mai cercato seriamente di mettere in discussione il proprio ruolo. Pubblicare certe intercettazioni di nessun interesse giudiziario (dunque: nove su dieci) non è obbligatorio. E’ del tutto facoltativo. L’alibi ‘ma è nelle carte’ è appunto un alibi. Dalle carte si estragga ciò che serve a capire perché una o più persone sono sotto accusa. Il resto è gossip, dileggio e sputtanamento. Non solamente i magistrati hanno il potere di decidere della vita delle persone. Anche i giornalisti, ma fanno finta di non saperlo”. Serra ha spiegato domenica che il modello Milano lo si può criticare, certo, ma non si può non riconoscere che abbia portato benessere, ricchezza, lavoro, sviluppo, trasformando una città che un tempo guardava al passato in una città che ha iniziato a guardare al futuro. Domanda necessaria e maliziosa: è giusto, eventuali responsabilità individuali a parte, criminalizzare per via giudiziaria le scelte fatte dalla politica in una città? Ed è giusto criminalizzare il tentativo di trovare un’alternativa all’inefficienza burocratica italiana?

“Il ‘modello Milano’ era alla luce del sole, nessun sotterfugio, tutto ‘in chiaro’: facilitazione a volte spericolata del permesso di costruire. Sta alla magistratura, come si dice ritualmente ma giustamente, stabilire se sono stati commessi reati. Se cioè – come è accaduto in infiniti altri casi – qualche amministratore, pur di non morire soffocato sotto le tonnellate di burocrazia, abbia dribblato gli ostacoli e commesso abusi. Conta moltissimo, secondo me, se questa disinvoltura abbia come scopo l’arricchimento personale oppure la convinzione di operare per il bene pubblico. Sono sicuro che Sala, che è una persona per bene, non avrà alcuna difficoltà a dimostrare che rientra nella seconda categoria. Quanto al giudizio politico, è tutt’altra cosa. Io penso che lo sfavillio di miliardi che ha cambiato (enormemente in meglio) il volto di Milano, avrebbe senso se la sua ricaduta sociale fosse estesa e visibile. E non lo è. Ma sai, io sono di sinistra, penso che i ricchi debbano pagare molte più tasse e gli oneri di urbanizzazione debbano essere molto più alti. La Milano sociale, quella della tradizione socialista, tra i grattacieli sembra in evidente affanno”.

Al netto dell’inchiesta una domanda è lecita: cosa ne pensa Michele Serra di questa diffusa e trasversale criminalizzazione non solo della politica ma della logica del profitto? “Non esiste il reato di ‘eccesso di edilizia’, e neppure quello di ‘eccesso di sviluppo’. Ma esiste il diritto, squisitamente politico, di opporsi, di vedere i danni e non solo i vantaggi, di immaginare altri modi e di progettare altre cose. Bisogna però che questo diritto, legittimo e necessario, non si accontenti della lagna moralista, ma produca proposte leggibili e lotta politica. E in genere tocca ai riformisti, non agli estremisti, rimboccarsi le maniche”. La volontà dei pm in alcuni passaggi di criminalizzare politica e profitto ci ha colpito molto. Ma ci ha colpito anche altro: la presenza di una borghesia che ha beneficiato del modello Milano e che ora tace. Domanda inevitabile: esiste ancora una borghesia a Milano che somigli anche lontanamente a una classe dirigente? “Borghesia è una parola del Novecento, così come operai. I pochi superstiti non esistono più come ‘classe’, esistono come persone. Non formano il gusto, non orientano le scelte. Il mio timore è che anche ‘classe dirigente’ sia un concetto del secolo scorso. La società si dirige da sé sola, con sempre meno calmieri tra benestanti ed esclusi, sempre meno passaggi intermedi tra come si orienta il capitale e come si disorientano le masse”.

Qual è il tic più pericoloso che si intravede a sinistra quando si alza un polverone attorno a un’inchiesta che cattura l’attenzione dei lettori e degli elettori? “Accodarsi alla folla che vede erigersi la forca. Ma sta cambiando, mi sembra sia una tendenza meno praticata e soprattutto meno sopportata”. Milano, a suo modo, è il simbolo di una sinistra vincente. Ma la sinistra che vuole vincere le prossime elezioni sembra essere anni luce distante dal modello vincente di Milano. Cosa ci dice questo sulla sinistra del futuro? “Milano non è una città di sinistra. Non in senso classico, almeno. E’ una città democratica, sicuramente, e antifascista, altrettanto sicuramente. Moderata, operosa, tollerante, culturalmente aperta come nessun’altra città italiana. Ripartirà, come ha sempre fatto, da se stessa. Dalle sue qualità, che sono più forti dei suoi vizi”. Quando si sceglie di trasformare un’inchiesta in un’operazione di giustizia sociale si tende ad accettare il fatto che una procura possa muoversi anche sulla base di un giudizio etico. Tema ulteriore per Serra: ma il “giudizio etico” può diventare una trappola per la sinistra? Non rischia di essere un modo per non prendere decisioni, e per nascondere l’assenza di un progetto vero sul futuro? “La politica senza etica diventa pura amministrazione: si accetta il mondo così com’è, e amen. Ma l’etica senza politica è solo fumo negli occhi. Trovo insopportabili quelli che parlano sempre nel nome dei massimi princìpi e non si abbassano mai a fare i lavori pesanti”. Non riuscire a governare gli ingranaggi del circo mediatico-giudiziario è per la sinistra un grosso problema che ci costringe ad affrontare un tema ulteriore: ma Michele Serra, dalla sua “Amaca”, non pensa che sia una pazzia assoluta avere una sinistra che ha lasciato la difesa del garantismo a una destra il cui garantismo è solido come una medusa che si ritrova spiaggiata sotto il sole d’agosto? “Sì, lo penso. Che la sinistra difenda l’autonomia della magistratura è sacrosanto. Direi obbligatorio: è nel suo spirito costituzionale. Che abbia dimenticato i diritti dei cittadini, anche di molti suoi sindaci ingiustamente inquisiti e poi assolti, è invece una grave omissione. E’ una questione di libertà e di dignità della persona che è stato deplorevole mettere tra parentesi per troppi anni. Berlusconi combatteva i giudici per difendere i suoi privilegi e i suoi comodi, la sinistra avrebbe dovuto battersi, ed è tutt’altra cosa, perché la difesa e l’accusa potessero avere uguale peso: soprattutto mediatico”. I tic ricorrenti del progressista collettivo sono lì, di fronte ai nostri occhi. Non volerli vedere e non volerli denunciare non significa essere neutrali. Significa aver fatto una scelta. Significa aver scelto di assecondare, anche nel mondo del giornalismo, un mostro chiamato circo mediatico-giudiziario, all’interno del quale la sinistra si suicida e all’interno del quale senza accorgersene il giornalista diventa spesso una buca delle lettere delle carte delle procure. Anche no, grazie.

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  • Claudio Cerasa
    Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e “Ho visto l’uomo nero”, con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.

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