Votare a sedici anni. Starmer apre il fronte generazionale. Scelta illuminata o illusione per adulti?

Il Regno Unito diventa il primo grande paese occidentale ad abbassare ufficialmente l’età del voto a sedici anni. Un dialogo immaginario tra un conservatore scettico e un progressista fiducioso nella maturità precoce delle nuove generazioni

Progressista: La proposta di Starmer è giusta, urgente, democratica. Non c’è nessun motivo razionale per negare il diritto di voto a un sedicenne che può lavorare, pagare le tasse, uscire da scuola, guidare un motorino, fare figli, sposarsi. Vivere la società. Non votare è un’eccezione incomprensibile. E l’idea che il voto debba arrivare solo con una soglia simbolica come i diciott’anni è frutto di un formalismo antico, non di una vera valutazione sulla maturità.

Conservatore: Ma il diritto di voto non è solo un simbolo, è un atto di potere. Ed esercitare un potere richiede responsabilità. A sedici anni si è nel pieno di un’età delicata, vulnerabile. Un’età di transizione, dove tutto – emozioni, idee, identità – è instabile. Coinvolgere i ragazzi nella vita politica prima che abbiano completato un percorso di crescita rischia di creare una democrazia più fragile, non più forte.

Progressista: Ma siamo davvero sicuri che esista un’età “matura” per votare? Conosciamo benissimo adulti che votano sulla base di paure irrazionali, disinformazione, istinti. Il voto non premia la lucidità: garantisce la rappresentanza. Se si esclude il sedicenne per mancanza di lucidità, allora dovremmo togliere la scheda anche a metà del corpo elettorale. Non si tratta di essere più o meno intelligenti, ma di vivere nella società. E i sedicenni la vivono eccome.

Conservatore: Sì, ma la vivono in modo ancora parziale. Sono ancora sotto la tutela legale dei genitori, sono obbligati in molti casi a frequentare la scuola, dipendono da altri per le decisioni fondamentali della vita. Non hanno autonomia piena. E soprattutto, come si può pensare che abbiano una solida cultura civica quando il sistema scolastico – lo sappiamo – dedica pochissimo spazio all’educazione alla cittadinanza? Il voto non deve essere l’inizio dell’educazione civica, ma il suo coronamento.

Progressista: Ma proprio per questo bisogna legare il voto alla scuola. L’introduzione del voto ai sedicenni può e deve essere accompagnata da una riforma che rafforzi l’educazione civica, il dibattito pubblico nelle aule, la consapevolezza democratica. E questo è già successo: in Scozia e in Austria, dove i sedicenni votano da anni, si è visto un aumento della partecipazione politica giovanile, non una deriva infantile. Dobbiamo smettere di trattare i giovani come eterni incapaci.

Conservatore: Attenzione a non scivolare nell’ingenuità. I sedicenni sono oggi esposti a una quantità di stimoli senza precedenti: TikTok e altri social network, narrazioni polarizzate. E’ il terreno ideale per il populismo più becero. Alcuni politici non vedono l’ora di avere a disposizione un nuovo bacino di elettori influenzabili, da emozionare più che da convincere. Il rischio è che il voto dei giovani diventi una leva in mano ai più demagogici, non ai più seri.

Progressista: Questo però vale per tutti, non solo per i sedicenni. E comunque sottovaluti quanto i giovani siano diventati più critici, più selettivi, più attenti. Parlano di clima, di guerre, di diritti. Hanno opinioni articolate. Sminuirli è una forma di paternalismo. Se un sedicenne sa perché è contro la guerra in Ucraina o perché vuole difendere il diritto all’aborto, allora ha tutto il diritto di entrare nel processo democratico. Non ci sono prerequisiti di saggezza per votare.

Conservatore: Eppure c’è un principio fondamentale da difendere: la democrazia non è solo partecipazione, è anche proporzione. A ogni età corrisponde un grado diverso di responsabilità. Se un sedicenne non può comprare alcolici, firmare un contratto, essere eletto, ma può votare, creiamo una democrazia schizofrenica. Il voto è un diritto, sì, ma anche un atto che implica adultità. Spostare troppo in basso questa soglia rischia di ridurre tutto a un rito, a un gesto senza radici.

Progressista: E invece può essere il contrario: un’occasione per piantare radici prima, per avvicinare le istituzioni, per costruire un rapporto meno disilluso con la politica. Perché ci meravigliamo dell’astensionismo giovanile quando li teniamo fuori finché non sono maggiorenni e poi li buttiamo dentro dicendo “ora sei adulto, arrangiati”? Dare il voto a sedici anni è un modo per coltivare, non per banalizzare. I paesi che lo hanno fatto hanno visto un maggior senso civico nei giovani.

Conservatore: Ma sono eccezioni. E spesso il voto a sedici anni ha funzionato solo dove c’erano già condizioni culturali avanzate, un forte senso dello stato, istituzioni solide. In altri contesti – e il Regno Unito oggi non è esattamente un modello di stabilità – rischia di diventare una misura elettoralistica. Starmer lo propone sapendo benissimo che i giovani votano più a sinistra. E’ una mossa strategica, non etica.

Progressista: E’ una mossa politica, certo. Ma anche tutte le grandi estensioni del voto lo sono state: alle donne, ai lavoratori poveri, ai diciottenni. Non c’è da scandalizzarsi se una proposta è anche vantaggiosa per chi la fa. Quello che conta è il principio. Ed è un principio giusto: più democrazia, non meno. Più partecipazione, non meno. Se i giovani si allontanano dalla politica, è anche perché la politica si è tenuta lontana da loro.

Conservatore: E tuttavia c’è una soglia che dà senso alle cose. In una società dove tutto si anticipa – la sessualità, il lavoro, le responsabilità – qualcuno deve avere il coraggio di dire che non tutto si può accelerare. La democrazia è fragile, e non va diluita. Sedici anni è ancora il tempo della formazione. Il voto, lasciamolo almeno ai diciotto. E’ il tempo minimo per distinguere l’impulso dall’argomento.



Conclusione: Il dibattito è aperto e attraversa tutta l’Europa. Con la vittoria di Keir Starmer e il suo progetto di legge, il Regno Unito diventa il primo grande paese occidentale a estendere il diritto di voto ai sedicenni su scala nazionale. Non è più un’ipotesi, ma una realtà imminente. C’è chi lo considera un atto di fiducia verso le nuove generazioni, e chi lo teme come una forzatura ideologica. Ma la domanda resta: in un mondo che chiede ai ragazzi di essere adulti sempre prima, ha ancora senso trattarli da bambini quando si tratta di democrazia?

Leave a comment

Your email address will not be published.