Lo scrittore riflette sulle sue esperienze di viandante in un monastero benedettino. I suoi poli sembrano essere l’inferno e il paradiso, e per ricercarlo arriva a spingersi fino ai confini della geopolitica delle religioni. Tra autori e citazioni
“Un tempo, i saggi uomini politici si facevano accompagnare da esperti di teologia o erano essi stessi eccellenti teologi. Oggi la teologia è disprezzata o praticata da persone di quart’ordine. Per il bene dell’universo, sarebbe giusto che rifiorisse al più presto”. Questo era l’auspicio di Pietro Citati nel saggio Le scintille di Dio, destinato a restare inascoltato. Così, in mancanza di teologi, potremmo farci accompagnare dagli scrittori di viaggio, considerando la loro propensione all’ermeneutica, all’interpretazione delle culture, al cosmopolitismo. Senza contare che molto spesso si avverte in loro una vena mistica, teologale. E’ il caso di Pico Iyer, scrittore di viaggi, culture e religioni, che riflette sulle sue esperienze di viandante in un monastero benedettino.
“Il lavoro dello scrittore è smantellare il concetto stesso di altro mostrando che le tue sofferenze appartengono anche a me e le mie speranze a te”, scrive Iyer per definire la vocazione maieutica dello scrittore di viaggi, così come appare nel libro La vita a metà conosciuta (Einaudi), una raccolta di storie in cui il viaggio è qualcosa che non troverà mai una conclusione. “La vita non può che essere a metà conosciuta, poiché il suo atto finale, che sembra rimettere al proprio posto tutto ciò che è successo prima, resta sempre ignoto”, è la spiegazione.
In un certo senso Iyer incarna il protagonista del saggio di Umberto Galimberti L’etica del viandante: un uomo che cerca “il centro non nel reticolato dei confini ma in quei due poli che Kant identificava nel cielo stellato e nella legge morale che per ogni viandante hanno sempre costituito gli estremi dell’arco in cui si esprime la sua vita in tensione”.
I poli di Iyer sembrano essere l’inferno e il paradiso, tema e sottotitolo del suo libro, Viaggi in cerca del Paradiso. “Dopo anni di viaggi avevo cominciato a chiedermi che tipo di paradiso fosse possibile trovare in un mondo di conflitti incessanti”. Il punto di partenza è l’Iran, là dove è nato il termine stesso di paradiso, “paradaijah”. Da là si sposta in Kashmir e Sri Lanka, paesi “le cui sofferenze sembrano derivare dallo status plurisecolare di paradiso in terra”. E poi, ineluttabilmente, Gerusalemme, che appare in sorprendenti citazioni di Melville, che fu devastato da un viaggio in Palestina dove, “vagabondando tra le tombe, iniziò a pensare di essere uno dei posseduti dai diavoli”, mentre per Jung “Gerusalemme poteva essere un riflesso visibile dell’inconscio collettivo”. A dimostrazione di quanto pensava il mistico Thomas Merton, spirito guida di Iyer: “Il paradiso non è insito in nessun luogo ma solo nella mente di chi lo pensa”.
Nella sua ricerca del paradiso, Iyer si spinge ai confini della geopolitica delle religioni. Questa differente chiave interpretativa della modernità pone al centro Dio e la religione. Sul finire del secolo scorso fu canonizzata nelle pagine della rivista “Hérodote” e nei lavori sul ruolo politico della religione di François Thual, ed è a questa corrente di pensiero che probabilmente si ispirò anche Pietro Citati. Nella versione di Iyer, invece, la geopolitica delle religioni si ricollega a quella tradizione letteraria in cui il viaggio diventa lo strumento per cogliere il momento che stiamo vivendo anche nello studio delle religioni, dei loro spazi, le loro reti di potere.
Siamo nel mondo di Bruce Chatwin e di Paul Theroux, di V.S. Naipaul e di George Santayana, che nel suo saggio “Filosofia del Viaggio” identifica nel movimento “la chiave dell’intelligenza”. Paradossalmente, per Iyer chi incarna meglio lo spirito del viaggio è Ralph Waldo Emerson, il filosofo e poeta americano citato spesso per la sua frase “Viaggiare è il paradiso degli sciocchi”. Gran viaggiatore lui stesso, Emerson si riferiva a coloro che vedono il viaggio come un’esperienza transazionale, che si aspettano dal viaggio qualcosa in cambio.
In fondo, però, per Emerson come per Iyer o Thoreau (o addirittura Merton) anche il viaggio che ci porti a una comprensione, che sia del sé, dell’altro o dell’altrove, potrebbe rientrare in questa categoria. Così, almeno la pensa William T. Vollmann, uno degli autori più violenti e dissacranti della letteratura americana contemporanea. Nel suo “L’Atlante” la ricerca non è più quella del paradiso, ma dell’inferno. L’ultima citazione, dunque, spetta a Omar Khayyam, scienziato e poeta persiano dell’XI secolo, che nell’Iran di oggi sarebbe destinato alla forca. “Mi dice la gente: ‘Gli ubriachi andranno all’inferno!’. Ma son parole queste prive di senso pel cuore: se dunque andranno all’inferno i bevitori e gli amanti, vedrai il Paradiso domani nudo come palmo di mano!”.