La vita imprevedibile di Sandro Parenzo: editore, sceneggiatore, pioniere della tv commerciale con Berlusconi. Dalle confidenze di Bettino alle serate con Ugo Tognazzi, De Benedetti e La Russa, tra satira, cinema, politica e falsi ben riusciti
Lo tiene in un cassetto, tra vecchie sceneggiature, fotografie sbiadite, appunti. E’ un foglio A4, battuto a macchina, protocollato, datato 20 gennaio 1984. La carta è ingiallita, ma le parole restano nitide. E’ una memoria, scritta per cautela: “Nel caso un giorno qualcuno avesse voluto chiedermi conto di quella telefonata”.
Riguarda un fatto clamoroso. Fino a oggi inedito.
La stanza nella quale mi riceve è foderata di legno. Ai muri, quattro grandi disegni di Schifano: sembrano sorreggerla più delle pareti. E’ ampia, attraversata dalla luce. Dalle vetrate si vedono gli studi della Videa, l’azienda che fu di Franco Cristaldi, il grande produttore che vinse tre Oscar con “Divorzio all’italiana”, “Amarcord”, e “Nuovo Cinema Paradiso”. Il foglio ingiallito viene posato sul tavolo con un gesto lento, come si fa con un oggetto che ha già vissuto. E mentre lo osserva, l’uomo che quarantuno anni fa lo ha firmato comincia a raccontare.
E’ il gennaio del 1984. E lui lavora a Canale 5, che ha contribuito a fondare. E’ amico del giovane Fabio Fazio, cui ha appena affidato una delle sue prime trasmissioni. Fazio, in quel periodo, imita tutti in televisione, soprattutto i politici. Fa scherzi al telefono. L’imitazione di Craxi è la sua preferita.
Quando la segretaria entra e dice: “C’è Craxi al telefono”, lui pensa subito a uno scherzo. Ride. Non risponde. “E’ quell’idiota di Fazio”.
Ma la chiamata torna. Torna una seconda volta. Alla terza, risponde.
Dall’altra parte, la voce bassa e secca del segretario del Psi. Del presidente del Consiglio: “Ma lo sai che sei un tipo strano? Vieni subito da me”.
Lo fa salire in macchina. Parla poco. Poi, a metà tragitto, chiede: “Hai ancora rapporti con Toni Negri?”
“Non lo sento mai. Perché?”
“Stasera lo arrestano. Devi avvisarlo di non tornare a casa”.
E allora lui torna in sede, proprio qui dove siamo adesso, tra i capannoni degli studi di Cristaldi. Inventa una scusa, prende il telefono, chiama Parigi. Avvisa il suo amico Nanni Balestrini, che a sua volta avvisa Toni Negri. Il fondatore di Potere Operaio. E dell’Autonomia. Latitante. “Non sono mai stato di Potere operaio, ma siamo tutti di Padova, della stessa generazione. Amici”. Quella sera, Negri non rientra a casa. E non lo arrestano.
Ma l’avvocato della società gli consiglia di mettere tutto per iscritto: “Una memoria, firmata, datata, protocollata dal notaio. Potrebbe servirti”. E così fa. Quel foglio, oggi, è ancora lì. Anzi, qui.
L’uomo, che oggi ha ottantuno anni, magro e brevilineo, si chiama Sandro Parenzo. Produttore, sceneggiatore, imprenditore televisivo. Ha attraversato sessant’anni di storia dei media italiani, sempre sul confine tra potere e finzione, ironia e impresa, cultura e intrattenimento. Ha lavorato con Tognazzi, con Bertolucci, con Berlusconi, con Leonardo Mondadori a Rete 4, con Angelo Guglielmi nella Raitre dei tempi d’oro. “Ho fatto l’alto e il basso, la monnezza e il gruppo 66”. Ha inventato programmi con Corrado e Gianfranco Funari, con Nanni Loy e Maurizio Costanzo, Enza Sampò e Raimondo Vianello, con Giuliano Ferrara e Michele Santoro. Parenzo produceva anche le interviste che Indro Montanelli faceva su Telemontecarlo raccontandosi ad Alain Elkann (ricorda Parenzo: “Quando chiusero la trasmissione, Elkann era disperato: ‘Adesso cosa faccio? Ho tre figli da mantenere’. Erano i nipoti di Gianni Agnelli. Dunque gli suggerii di non utilizzare troppo quell’argomento in giro perché lo avrebbero menato”).
Ma Parenzo non ha fatto solo programmi televisivi. Ha scritto film di successo, orchestrato scherzi che hanno fatto epoca, rilanciato Antenna Lombardia, tentato di costruire un terzo polo televisivo ancora prima di La7 e di Discovery, fabbricato falsi spiazzanti. E anche un certo tipo di verità.
Raccontare un certo tipo di verità, per Parenzo, ha significato rovesciare l’assurdo nel grottesco. A maggio del 1979 s’inventa uno scherzo clamoroso. Ad aprile di quell’anno, infatti, la procura di Padova aveva indicato Toni Negri come il mandante del sequestro Moro. Addirittura come l’autore delle lettere scritte da Moro durante la prigionia. E per questo i pm avevano ordinato l’arresto di decine di intellettuali e militanti dell’autonomia, tra cui lo stesso Negri, Nanni Balestrini e altri amici di Parenzo (anche tu volevi fare la rivoluzione? “A me la rivoluzione sembrava una cagata pazzesca. E non ho mai capito come quelle persone amiche mie, così intelligenti, potessero crederci. Toni ci credeva ancora anche da vecchio, alla rivoluzione. A proposito: sto facendo un film su di lui”). E insomma il teorema in quei giorni è semplice e delirante: Potere Operaio sarebbe in realtà la sigla di copertura delle Brigate Rosse. Negri il loro capo. “Un’assurdità. Talmente assurda che, a quel punto, anche Ugo Tognazzi poteva essere il Grande Vecchio”, dice Parenzo. E allora che facesti? “Ovviamente andai da Ugo e glielo dissi: ‘Secondo me tu potresti essere il capo delle Br. Facciamo un finto arresto’”. E lui? “’Ma va’, le tue solite cazzate’”. Però l’idea poi gli piacque. E che successe? “Successe che m’ero messo nei guai, perché dovevamo farlo davvero”. E Parenzo dove va? “Mi rivolgo a quei geniacci del Male, la rivista satirica. Quindi prendo la macchina, vado a Monteverde, il quartiere di Roma, e suono al campanello della redazione. Mi aprono la porta Sergio Saviane e Vincino”. Il giornalista satirico dell’Espresso e il più simpatico e geniale dei vignettisti italiani. Li conoscevi? “Mai visti prima. Ah, c’era anche Pino Zac”. E che ti dicono? “Ascoltano quell’idea assurda, e non fanno una piega. Anzi. Dopo le prime tre parole dicono ‘Facciamolo subito’”. Più matti di lui. Quindi? “Quindi andiamo a casa di Tognazzi, a Velletri. Io conosco il cinema, so dove noleggiare le divise da carabiniere. Mi metto i baffi finti. Saviane fa il colonnello Cornacchia. Entriamo in cucina”. E lì, la scena. “Tognazzi stava cucinando. Grembiule, mani unte. Quando ci vede entrare, non dice niente. Si infila nel forno. Letteralmente. Per nascondersi”. Le foto sono perfette. “Paradossali. Surreali. Ma credibili”. I grafici del Male impaginano i finti quotidiani: La Stampa, Repubblica, Paese Sera. Il giorno dopo, gli edicolanti espongono quelle prime pagine sulle locandine di mezza Italia. Ci cascano pure loro. “L’Italia ci casca. La mattina dello scherzo il comandante dei carabinieri di Velletri andò da Tognazzi e gli disse: ‘Abbiamo capito che non è vero, ma per due giorni non esca di casa’. E c’era pure chi diceva: ‘Lo sapevamo! Tognazzi? Sempre avuto una faccia poco pulita’”. Ride, Parenzo. Ma il senso, alla fine, è serissimo. “L’unico modo per smontare quel teorema assurdo era prenderlo alla lettera. Esagerarlo. Portarlo al livello successivo. Se Toni Negri è il capo delle Br, allora anche Tognazzi lo è. Ma almeno Tognazzi sa fare il ragù”.
E com’era con te Tognazzi? “Ti ricordi ‘Il sorpasso’? Il rapporto Gassman-Trintignant?”. Certo. “Ecco, io ero Trintignant e lui era Gassman. Una sera mi chiama:
– Sandro, ti ricordi mio padre, Gildo, che mi mette sempre nei casini. Telefona al supermercato, pretende i premi, quelli dei bollini della pasta Barilla, anche se non li ha raccolti. E quando non glieli danno dice: ‘Sono il figlio di Tognazzi’?
– Certo, Ugo. Me lo ricordo. E che ha fatto stavolta?
– E’ morto
– Oddio, mi dispiace
– Il problema però non è questo
– Ah, e qual è il problema, Ugo?
– Il problema è che ora bisogna dirlo a mio figlio Ricky che torna oggi dal Messico
– E’ una cosa complicata, certo
– Ecco appunto, vallo a prendere e diglielo tu.
Gassman e Trintignant. E com’è che hai scritto la sceneggiatura di “Malizia”, il film di salvatore Samperi con Laura Antonelli? “Ero ragazzo, appena arrivato a Roma. Volevo fare lo scenografo, quindi comincio a bazzicare il cinema”. Lo scenografo? “Sì, sono laureato in architettura ma ho dimostrato subito, con assoluta certezza, di essere il peggior scenografo vivente. Sai cosa vuol dire avere cattivo gusto e sapere di averlo? Ecco”. Una tragedia. “Dovevamo allestire una scenografia? Io mettevo tre oggetti bellissimi in una stanza, e assieme facevano cacare… se ne accorgevano tutti. Pure io. Tant’è che tutte le case nostre le ha arredate mia moglie”. E “Malizia”? “Per fortuna sapevo scrivere. Anche se mio padre, che faceva l’avvocato, ancora, dopo moltissimi anni che facevo lo sceneggiatore, mi chiedeva: ‘Come vanno le scenografie’? Pensa un po. Non aveva capito neanche lui che lavoro facessi’”. Ma dicevamo di ‘Malizia’. “Sì, certo. Poiché come scenografo facevo schifo, ma il cinema mi piaceva, cominciai a scrivere sceneggiature. E la prima, tratta da un libro di Giuseppe Berto, andò così bene che me ne chiesero una seconda. C’era da adattare per il cinema un libro che si intitolava ‘Fantozzi’”. Accipicchia. Quindi hai scritto pure Fantozzi? “Eh no. Lo scrivemmo, ma il produttore bocciò l’idea del film. ‘Costa troppo’, diceva. ‘Troppe gag’. E allora ci ordina: ‘Fate un film che non costi più di 300 milioni’. Pochi esterni. Niente mezzi. Risparmio totale. Noi ci guardiamo in faccia, ci pensiamo e ci ripensiamo. E alla fine ci mettiamo a scrivere il soggetto di un film che trattava di cose che davvero ci stavano a cuore sin da quando eravamo adolescenti: guardare il culo delle cameriere”. Che poi è la trama di “Malizia”, all’incirca. “Esatto. Con Samperi saccheggiammo Brancati. E fu un successo clamoroso. Il film uscì lo stesso anno di ‘Ultimo tango a Parigi’. E incassò più o meno la stessa cifra. Mi diedero un milione di lire. Che era una cifra enorme. Ed è così che ho cominciato a fare lo sceneggiatore anche per Tognazzi”.
E insomma dopo “Malizia” il successo lo lancia sul serio. Cominciano a cercarlo in tanti. Produttori veri, produttori improvvisati, e pure qualcuno che produttore lo è solo in apparenza. Il confine, in quegli anni, è sottile. E a volte può capitare che dietro un film si nasconda qualcosa d’altro.
“Un giorno andai a incontrare al Grand Hotel un tizio che voleva finanziare un film nel quale doveva recitare per forza suo figlio. Io non lo sapevo, ma questo tizio era Michele Greco. Detto il Papa. In pratica era il capo della mafia. Insomma, arrivo in albergo e trovo, seduti tutti dallo stesso lato del tavolo, tipo commissione d’esame: Mario Merola, Michele Greco, il figlio di Michele Greco che si chiamava Giuseppe, e Franco Franchi”. E che successe? “Io, ripeto, ancora non avevo idea di chi fosse questo signore siciliano, peraltro assai ben vestito, che si presenta come un possidente agrario e che sembrava lui stesso uscito da un film. Mi dice con accento marcatissimo: ‘Vede, dottor Parenzo. Io c’ho solo questo figlio, che è l’amore della mia vita. Che ci vuole fare, sono sentimentale. Ebbene lui vuole fare il cinema. Io gliel’ho detto di lasciare perdere, ma non c’è niente da fare’. E a questo punto apre un libretto degli assegni. Me lo mette davanti. ‘La cifra la scriva lei’. Io non dissi niente di definitivo, incontrai il ragazzo un paio di volte. Si faceva accompagnare da Michele Zaza, che era un camorrista. Tutte cose che ho scoperto subito dopo. Praticamente questo Giuseppe Greco, il figlio del padrino, quando varcava il confine con la Sicilia veniva preso in consegna dalla Camorra”. Che lo portava da te. “Esattamente”. E come ne sei uscito? “Prendendo tempo, con grande cortesia”. E loro? “E loro poi si sono stufati. Alla fine so che Giuseppe Greco, che adottava lo pseudonimo di Giorgio Castellani, quel film l’ha fatto sul serio. Ma con altri produttori e sceneggiatori. So anche che poi è morto, che è stato in carcere per mafia. Ma una volta uscito ha comprato una sala cinematografica. Proiettava ogni giorno quel suo unico film”. E anche questo sarebbe un film.
Il falso, per Sandro Parenzo, è sempre stato un atto di creatività, un gesto artistico, una provocazione intellettuale. “A Padova nel 1966 misi in piedi una serie di mostre, alcune con Gaetano Pesce prima che diventasse famosissimo. Il titolo di una di queste mostre era all’incirca: ritratti dei migliori e dei peggiori padovani. La gente di Padova entrava, e si trovava in una stanza piena di specchi che riflettevano i loro stessi volti”. Da quella stanza di specchi ai set televisivi il passo è stato breve, o forse solo coerente. Quello che per altri è menzogna, per Parenzo è una forma di verità che passa dal gioco, dal travestimento, dallo spiazzamento. Così, negli anni, i suoi “falsi” diventano sempre più sofisticati, sempre più ambiziosi. Non solo Tognazzi capo delle Br. Nel 1992, a Mixer, propone a Giovanni Minoli una rubrica chiamata “Facs”, da “facsimile”: simile al vero, ma non vero. Il primo episodio è una finta inchiesta sul referendum monarchia-repubblica del 1946, costruita come un documentario storico impeccabile. “C’erano i giudici che truccano le schede per evitare il ritorno dei Savoia. Un testimone commosso che racconta la verità nascosta per il bene della patria. Perfino un finto filmato d’epoca in 8 millimetri. La prova regina”. Partecipano veri intellettuali, come Stefano Rodotà, che si presta al gioco e racconta con naturalezza le presunte manipolazioni. “C’era pure il rappresentante di casa Savoia che diceva: ‘Lo abbiamo sempre saputo”. Era un attore? “No, lui era sul serio un monarchico. E non sapeva che fosse uno scherzo. Ma ai brogli ci credeva. Come d’altra parte un po’ ci credo pure io”. Minoli lo manda in onda come un servizio normale, dicendo solo: “Guardatelo fino alla fine, ci sarà una sorpresa”. Ma quasi nessuno arriva alla fine. Scoppia il caso. Il Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si indigna. Telefona alla Rai. “Chiese il licenziamento di tutti”.
E poi c’è stato anche l’arresto della Zanicchi. Siamo a Canale 5, 1998, in piena guerra di controprogrammazione con il Festival di Sanremo. In quei giorni si parla di brogli al Festival, l’atmosfera è giusta. “Con Maurizio Costanzo direttore di Canale 5, ed Emilio Fede, che conduceva, decidiamo di arrestare Iva Zanicchi in diretta. Le immagini partono in contemporanea all’inizio di Sanremo. Tutto è preparato, anche Iva è d’accordo. C’è la finta polizia, lei in manette… Ma i genitori della Zanicchi vedono la loro figlia in tv ammanettata, e rischiano l’infarto. Lei li chiama: ‘Mamma, papà, non è vero!’. Ma loro: ‘L’abbiamo visto in televisione!’. Credevano più alle immagini dello schermo che alla voce della figlia”. Bei tempi. Oggi vedi una cosa vera e sei sicuro che sia falsa.
E mentre parla, talvolta, viene il dubbio che anche anche in questa intervista Parenzo si stia inventando qualcosa. Specialmente quando dice “potrai ben scrivere che questa è l’unica intervista in cui racconto la storia dei miei falsi”. In che senso? “Che l’ultima volta Panorama mi aveva inviato una giornalista molto brava a intervistarmi e io le feci trovare un attore, Jacopo Capanna, che mi impersonava. L’intervista la fece lui. Era la caricatura del produttore volgare. Apriva i cassetti con violenza e tirava fuori mazzette di banconote. Perché pagava tutti in nero. Poi bestemmiava al telefono, urlava ai collaboratori”. E tu non c’eri nemmeno? “Sì c’ero, m’ero riservato un cameo. Entrai vestito da cameriere e versai il caffè sui pantaloni del produttore”. Ecco.
C’è una qualità precisa nell’ironia di Parenzo. Non è cinismo, non è sarcasmo, non è neppure una forma di difesa. E’ forse qualcosa di più antico e profondo. E’ un riflesso culturale, probabilmente. Appartiene a una tradizione, a un’eredità che si trasmette per riso e per trauma, come una lingua madre che non si parla ma si capisce. Un’ironia ebraica, per struttura e destino. Capace di dire le cose più dolorose con una leggerezza che le illumina, non le dissolve. “Quando mi chiedono se sono ebreo, dico: metà e metà… Metà sefardita e metà askhenazita”. La famiglia sterminata nei campi di concentramento. I suoi genitori si salvano dai rastrellamenti nazifascisti salendo in montagna. E’ lì che nasce Sandro, nel 1944. “Poi mi chiedono se sono circonciso… Vallo a trovare un rabbino in montagna nel ’44”. E ride, ride forte. Lo sguardo mobile, vivace. Gli occhi affossati in orbite grinzose, talvolta non dissimili da quelli di un camaleonte.
E David Parenzo cos’è per Sandro Parenzo? “Ormai abbiamo deciso che è mio nipote. Ufficialmente. Così nessuno mi fa domande. In realtà non so nemmeno se siamo proprio parenti. I nostri nonni erano cugini. Ma lo conosco da bambino, da Padova. Lui comincia da me, in tv. Sta sette anni a Telelombardia”. E Sandro parla di David con quell’ironia sua, apparentemente contundente, e che stavolta non vela il dolore ma scopre l’affetto. Un po’ come quando mi dice che “ho rovinato Nanni Balestrini” (il suo grande amico). In che senso lo hai rovinato? “Era un fighetto milanese, signorile e molto elegante. Poi gli ho presentato Toni Negri, ed è finito ricercato dalla polizia”. Ma torniamo a David. “Se conosci i genitori di David ti viene da chiederti: “Ma come è venuto fuori quello?”. In che senso? “Che i suoi genitori sono due persone rispettabilissime e morigerate. Suo padre fa l’avvocato. E invece da loro viene fuori quella creatura pronta a qualsiasi cosa. Una volta ho sentito una puntata della ‘Zanzara’…”. Dove David fa gran coppia con Giuseppe Cruciani. “Mi sono vergognato: non siamo parenti, nemmeno cugini!”. Esageri. “Fa il pungiball, l’ebreo che subisce”. E’ un ruolo di scena. Fa quello di sinistra, che subisce. “Di sinistra, ma ebreo… che subisce”. Siamo sempre all’ironia ebraica. E alla violazione di ogni principio di non contraddizione. Infatti poi Sandro dice: “Ci assomigliamo moltissimo”. Appunto.
E Berlusconi come lo hai conosciuto? “Era il 1980. Io lavoravo con Cristaldi. Un giorno arriva questo imprenditore milanese, che a me pareva brianzolo. Un bauscia come tanti. Dice che vuole produrre un film. Anzi due. Perché ha questa ‘amica’, Veronica, che vuole fare l’attrice. Mostra delle foto abbastanza osé: ‘Mi dica quanto costa’”. Cristaldi, che era un signore, gli risponde: ‘Per fare un film ci vuole una sceneggiatura’. Allora lui chiede chi sia il più bravo. E Cristaldi, bontà sua, fa il mio nome. Che ovviamente non ero il più bravo. Quindi va a finire che questo Berlusconi compare al telefono, mi dà appuntamento, e ripete: ‘Complimenti, mi scriva due sceneggiature’. Il problema è che io all’epoca lavoravo molto, non avevo tempo. Quindi tergiverso, e alla fine lui si scoccia. Però passa un mese, e mi richiama: ‘Sono Berlusconi, si ricorda?’ Poi ancora: ‘Lei la farebbe la televisione?’ E io: ‘Ma la televisione è la Rai!’ ‘No, un’altra cosa, venga a Milano’”. Iniziava Canale 5. “Prendo la macchina, arrivo un’ora prima. Giro per Milano 2. E capisco che quest’uomo non è come i palazzinari romani che conoscevo io: rapaci e basta. Lì, tra quei vialetti alberati, c’era un’idea urbanistica intelligente. Era un posto bello. Molto bello. Allora comincio a capire: vuoi vedere che questo Berlusconi non è un bauscia brianzolo qualsiasi? Lo incontro. E mi dice che ha preso Mike Bongiorno, che la sua televisione è nata in uno scantinato. Mi propone di supervisionare testi e contenuti”. Ti ha affascinato? “Era seducente, fantasioso, entusiasta. E pagava bene. Insomma comincio ad andare un giorno alla settimana a Milano, poi diventano due giorni. E alla fine ci resto”.
La prima trasmissione? “Forse la più brutta della storia: ‘Domenica con Five’. Te lo ricordi Five? Era quel pupazzo orrendo che sembrava un cazzo con i peli. Vabbé. C’era lui e c’era il gruppo comico ‘I Gatti di Vicolo Miracoli’”. Cioè Umberto Smaila, Franco Oppini, Ninì Salerno e Jerry Calà. “Esattamente. La voce del pupazzo Five la faceva Marco Columbro, che ancora non conduceva niente. Ci divertivamo a fare cazzate. Alla fine dei titoli di coda scrissi: ‘Si ringrazia SUA EMITTENZA per la gentile ospitalità”. E che successe? “La direttrice di produzione mi chiama dicendomi: ‘Sei licenziato’. Perché facevo ironia sul Cavaliere e padrone”. Invece Berlusconi si diverte. “Altroché. Addirittura, subito dopo, in un’intervista a Playboy, quando gli chiedono come vuole essere chiamato – ‘Cavaliere’, ‘dottore’, ‘presidente’ – lui risponde così: ‘Per carità, mi chiami Sua Emittenza’”. E dunque anche “Sua Emittenza” è un’invenzione di Parenzo.
A quel punto non ti sei più fermato alla Fininvest. “Abbiamo cominciato a comprare i film, quasi tutto il cinema italiano. Fino ad arrivare alla nascita degli studi televisivi anche a Roma. A un certo punto dico a Berlusconi: ‘Guarda che bisogna produrre anche a Roma, non solo a Milano, se vogliamo crescere’. E allora lui mi dà una stanza a Roma: ‘Prova per qualche mese’. Tre mesi dopo prendemmo un intero ufficio davanti alla Rai, con gli assegni pronti. Per prendere i volti televisivi dell’azienda pubblica. Corrado, che era in attesa del rinnovo del suo contratto, fu uno dei primi a firmare”. E poi? “Johnny Dorelli, Raimondo Vianello…”. La lista è infinita.
E che gli faceste fare a Corrado? “’Il pranzo è servito’. Un’avventura sospesa tra l’artigianato e l’incoscienza. Lo girammo in un cinema. Il Palace, nel quartiere di Montesacro. Senza aria condizionata. Il primo giorno Corrado arriva, entra e dice: ‘Non si respira’. Allora io compro dieci ventilatori a pala. E li monto. Era una cosa ridicola. Quando Corrado li vede, ride: ‘Va bene va… a Pare’, cominciamo. Produco cinquecento puntate di Corrado, cinquecento di Vianello che faceva ‘Zig Zag’”.
Ed è vero che “Drive In” lo hai inventato tu e non Antonio Ricci? “’Drive In’ lo produco nel 1983, l’ultimo anno in cui lavoro con Berlusconi. E no, non c’era Ricci. Tutto nasce da una telefonata di Fatma Ruffini, la produttrice di Milano: ‘Abbiamo questo contratto con venti comici, fai tu la trasmissione da Roma’. In una riunione, un suo assistente tira fuori l’idea: ‘Perché non l’ambientiamo in un drive-in?’. Ecco, nasce così, nello studio di Fatma. E senza Ricci. Prendete le cassette del primo ‘Drive In’, arrivate ai titoli di coda, e vedrete che Ricci non c’è”. E com’erano questi sketch? “Una noia mortale. Ma Enrico Vaime, che era un genio televisivo, se ne esce così: ‘Quanto dura questo pezzo? Cinque minuti? Bene, fallo in un minuto’. E così nasce il ritmo, quella velocità che poi diventa il marchio del programma. Il regista era Giancarlo Nicotra, uno che aveva già fatto sketch show in Rai. C’erano Enrico Beruschi, Ezio Greggio – c’era anche il fratello di Greggio che scriveva gli sketch… E non avevo nessun contratto con Berlusconi. Nessuno. Avevo aperto una mia società, Eurovision. Fatturavo io. Insomma a fine anno mi scrivevo da solo una cifra. E me la pagavano”. Il sogno di tutti.
Ma poi hai rotto i rapporti con Berlusconi. “Sì. Un giorno si presenta da me Leonardo Mondadori, accompagnato da Carlo Freccero. Loro avevano Rete 4. E butta lì: ‘So che vuoi andare per conto tuo. Ti offro un miliardo se vieni con noi’. Io replico: ‘Beh, un miliardo è un buon motivo per venire da voi. Però prima voglio parlare con Berlusconi. Glielo voglio dire io’. E infatti non firmai nulla. Esco dagli uffici Mondadori di via Sicilia, qui a Roma, a un passo da via Veneto. Vado a casa mia al Pantheon. E quando arrivo, il telefono già squillava chissà da quanto tempo. E’ scoppiato il finimondo. Qualcuno aveva detto a Berlusconi che avevo firmato con Mondadori. Anche se non era vero. Il giorno dopo infatti mi chiamano: ‘Parenzo, è meglio se non vieni a lavorare. Berlusconi non l’ha presa bene’. Non avevo mai firmato un contratto con il Cavaliere, ma mi avevano licenziato lo stesso”.
Chi gliel’aveva detto a Berlusconi? “Io un’idea ce l’ho: Carlo Freccero. Anzi, Freccero lo disse a una giornalista di Sorrisi e Canzoni, così che io non potessi più tornare indietro da Berlusconi”. E hai lavorato con Leonardo Mondadori a Rete 4. “Sì. Ma poiché mi metto sempre nei guai con le battute, l’ambiente di lavoro divenne ben presto assai teso”. Cioè? “Eh. Stavo lì, dirigente di questa rete Mondadori, un ambiente di persone raffinate, eleganti, educate, colte, incravattate, direi quasi perfette. Ma con un solo difetto: non capivano un cazzo di tv. Proprio niente. E però facevano la tv”. Può essere un problema in effetti. “Quindi succede che arriva il mensile Prima Comunicazione, e mi intervista. Mi chiedono: ‘Come definisce Rete 4?’ E io rispondo: ‘Il cimitero degli eleganti’. Dopo ovviamente hanno tutti smesso di salutarmi”. Chissà perché.
Ma torniamo al Cavaliere. Prese malissimo il tradimento. “Per diversi anni non l’ho mai più visto né sentito. Poi abbiamo fatto pace, grazie a Giuliano Ferrara. Tornai a lavorare alla Fininvest. Avevamo deciso, con Giuliano, di fare un programma che si chiamava ‘Il Professore’, che anticipava tutti i programmi alla Corrado Augias. Quindi facciamo un numero zero di questa trasmissione coltissima. Gli mandiamo la cassetta, al Cavaliere. Lui la vede… E io e Giuliano ci siamo sempre immaginati questa scena: Berlusconi che guarda la cassetta su due televisori giganteschi, quelli dell’epoca, a tubo catodico. E gli fa talmente schifo questa trasmissione, ma talmente schifo che prende a calci i due televisori. Anzi entra proprio fisicamente con i piedi dentro ai due televisori, e cammina per tutta la stanza con i due schermi calzati ai piedi”.
Quando lavoravi per Berlusconi avrai conosciuto anche Fedele Confalonieri, Marcello Dell’Utri e Urbano Cairo. “Certo. Dell’Utri è sempre stato una persona molto corretta con me. Addirittura quando mi misi in proprio mi fece la cortesia di non schiacciarmi”. In che senso? “Che con Publitalia avrebbero potuto strozzarmi nella culla facendo dumping sui prezzi della pubblicità. E invece non lo fece”.
E Cairo com’era a quei tempi? “L’ho conosciuto che era il giovane assistente personale di Berlusconi. Cairo era brillante, con quell’aspetto da faina che ha ancora adesso. Pero’ credo che per capire una persona la devi vedere giocare a pallone”. E come giocava? “Lui giocava benino. Giocavamo ad Arcore”. E…? “E non passava mai la palla a nessuno, salvo a Berlusconi davanti alla porta”.
Per un po’, a Milano, Parenzo si guadagnò un nomignolo curioso: “Il Berlusconi rosso”. Quando comprò una rete televisiva locale, Telelombardia. Quando divenne editore. Eri comunista? “Sono sempre stato di sinistra, sì. E lo sono ancora, credo”. E com’è che sei diventato il Berlusconi rosso? “Quando comprai Telelombardia feci una trattativa con Mediobanca che vendeva parte del patrimonio Ligresti. Era un periodo in cui Salvatore Ligresti era ai domiciliari. Mediobanca doveva dimostrare che vendevano qualcosa di suo. In sostanza si trattava di due caccole dell’impero Ligresti: la Richard Ginori e Telelombardia appunto. Insomma io mi faccio avanti per la televisione. Chiedono una fideiussione bancaria. Tutto tranquillo: mi appoggio alla Banca Commerciale, il prezzo era venti miliardi di lire. Ma all’improvviso si blocca ogni trattativa. Il direttore della banca mi dice: ‘Guarda, si è messo di mezzo uno. Temono che tu faccia una televisione di comunisti. Non te la vogliono dare”. E chi è che bloccava tutto? “Era Ignazio La Russa. E io manco sapevo chi fosse. Fatto sta che scopro che partecipava a una trasmissione sportiva su Telelombardia, che si chiamava ‘Cartellino rosso’. Sai, lui è interista e gli piace il calcio”. Certo. E che succede a quel punto? “Lo chiamo, fisso un appuntamento e ci incontriamo a Roma, al Circolo della Pipa. Mi dice: ‘Tu sei un uomo del Pci’”. E tu che gli rispondi? “E io gli spiego che non è così. E che anzi mi avrebbe fatto piacere se lui avesse continuato a venire in trasmissione. Volevo fare una tv laica, non orientata”. E lui? “Simpaticissimo. Mi disse: ‘Non ci credo che non sei un uomo del Pci, ma forse proprio perché sei del Pci mi fido delle tue rassicurazioni’. Insomma alla fine comprai Telelombardia e divenni amico di La Russa”. Ma prima Mediobanca aveva un’altra richiesta: che Parenzo incontrasse anche Ligresti. “Che mi riceve con grande cortesia e mi dice che gli dispiace moltissimo di perdere la televisione. Alché io gli dico: ‘Ingegnere, ho visto i bilanci. Lei perde due miliardi l’anno con Telelombardia. Perché le dispiace di venderla?’. E lui: ‘Caro Parenzo, intuisco che lei non capisce niente di tv. Io grazie a Telelombardia ho costruito mezza Milano e ho eletto due sindaci’”. Il potere dell’editoria. Spuria. E tu che hai fatto con Telelombardia? “Non facendo il politico né il costruttore io con Telelombardia ci ho fatto i soldi. Facendo solo televisione. Telelombardia oggi è canale 10, canale 11, canale 12. In Lombardia siamo primi, secondi e terzi. Nella classifica dei nani, siamo il nano più grande. Facciamo informazione e sport. Facciamo quello che deve fare la televisione di territorio. Parliamo solo di Milan, Inter e Juve”.
Ma Parenzo a un certo punto ha anche tentato una scalata nazionale. L’acquisto dell’allora Telemontecarlo, prima di La7. Volevi fare il terzo polo televisivo accanto a Rai e Mediaset? “La parola terzo polo porta sfiga, in tv quanto in politica”. E Parenzo fa qualche gesto apotropaico. Sei scaramantico? “Moltissimo”. E insomma l’acquisto di Telemontecarlo, scaramanzia a parte? “Ci provai. Qui, in questo stesso ufficio, firmammo un patto: io, Angelo Guglielmi, Giovanni Tantillo, Bruno Voglino, Michele Santoro, Piero Chiambretti, Antonio Lubrano, Serena Dandini… tutta Raitre in pratica. Era il 1989. C’è anche la foto. L’accordo era: se riesco a comprare Tmc, loro si spostano tutti su Telemontecarlo con me”. Ma non ci sei riuscito. “Telemontecarlo era finita dentro il caos Montedison. E il liquidatore della Montedison era Enrico Bondi, lo stesso che poi riapparirà con Parmalat e le acciaierie. Un grande personaggio. Il risanatore. Riesco a mettere insieme il capitale, ci sono dentro anche le cooperative, l’Unipol… Insomma una grande copertura economica. E allora vado a parlare con Bondi grazie all’avvocato Guido Rossi, il legale della sinistra. Sono emozionato, perché era una chance storica. Bondi mi dice: ‘Lei sa che chiediamo 70 miliardi?’. Dico: ‘Sì’. ‘E lei li ha?’. Rispondo: ‘Sì’. ‘E chi ha dietro?’ E lì faccio un errore clamoroso. Dico: ‘Nessuno’. E lui capisce subito. ‘Ma secondo lei, io nel casino della Montedison cedo la tv a uno che non ha nessuno dietro?’. Cercava un referente politico, non un avventuriero. Un pirata, come me. Il giorno dopo Tmc la compra Vittorio Cecchi Gori. Forse non aveva i 70 miliardi che avevo io, ma era senatore del Partito popolare italiano”. Quell’occasione mancata non gli è mai andata giù, a Parenzo. “E infatti ci riprovai a costruire una televisione nazionale che facesse concorrenza a Rai e Fininvest. A ridosso del 1994. Andai da Carlo De Benedetti, che allora controllava la Olivetti. Mi sembrava logico che un’azienda come Olivetti potesse entrare nel settore radiotelevisivo. Se ci pensate oggi la Olivetti è la Vodafone Italia, telefonini e tv sono due settori collegati”. E come andò? “Che arrivai a Ivrea, presentai il progetto a De Benedetti e a Corrado Passera che lavorava con lui. De Benedetti ascoltò. Prese gli appunti che avevo preparato, mi disse: “Poi con Passera ci studiamo i conti” e cambiò brutalmente discorso. ‘Lei ha lavorato con Berlusconi, ha letto che vuole scendere in politica?’, mi fa a bruciapelo l’Ingegnere. E io: ‘Sì, l’ho letto’. ‘E che ne pensa?’. ‘Penso che scende in campo e vince’. A questo punto De Benedetti mi guarda come se fossi una bestia: ‘Questi sono discorsi da bar’. Un mese dopo, mi richiama: ‘Ha visto i sondaggi? Berlusconi comincia ad avere dei numeri…’. E io, che non vedevo l’ora: “Ingegnere, questi sono discorsi da bar!’. E ci mettiamo a ridere”.
Ora, nella stanza affacciata sui capannoni della Videa, mentre la luce del pomeriggio disegna riflessi lenti sul legno delle pareti, Parenzo si concede un momento di silenzio. L’intervista è finita, ma lui resta lì, seduto, come se avesse appena cominciato. Accenna un sorriso: “Sai qual è il bello, alla fine? Che nessuno capisce mai se sto dicendo la verità o se me la sto inventando”. Poi aggiunge: “Ma se ci credi, funziona lo stesso”. Ride ancora una volta. E per un istante, non è chiaro se abbia appena raccontato la sua vita o se abbia solo scritto – anche stavolta – una magnifica sceneggiatura.
Ps. Quando arrivo nel suo studio, all’inizio, prima di cominciare l’intervista, Parenzo mi accoglie con un sorriso e una premessa: “Questa intervista la volevo fare perché ho superato gli ottant’anni. Ci sono cose della mia biografia che mi farebbe piacere precisare. Penso di poter dire che questa è l’ultima intervista della mia vita”.
A fine conversazione, dopo ore di aneddoti e paradossi, di sketch e politica, mi guarda e domanda: “Quando esce?”.
– “Non lo so”, rispondo. “Ci vogliono un paio di giorni. Va scritta”.
– E lui, con la sua ironia ebraica: “Va bene. Non prevedo di morire nei prossimi due giorni”.