Nella poesia, nella pittura, nell’arte, la notte sembra occasione di un’osservazione privilegiata di sé, il luogo di quella solitudine che, ripiegata sull’interiorità, dischiude la più intensa compagnia. L’ora in cui il desiderio prende il largo. Chopin, Saba, i cento anni dalla pubblicazione della “Sera del dì di festa”
Dolce e chiara è la notte e senza vento, / E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti / Posa la luna”, scrive Giacomo Leopardi in uno degli incipit più belli che la nostra letteratura conosca, delineando un’immagine che si riverbera in vari frangenti della sua poesia e trova riflessi in innumerevoli altri autori. Da sempre la notte – foriera di serenità ma anche di inquietudine, di riposo ma anche di sotterranee trepidazioni – è una sorta di varco socchiuso sul mistero dell’essere umano e della sua esistenza, sul desiderio che lo anima, sul silenzio che si contrappone alle attività del suo agire, sulle sue più profonde domande. “Che fai tu, luna, in ciel?”, scriveva il poeta di Recanati, ponendo un interrogativo che continua a risuonare nell’uomo di ogni tempo: “A che tante facelle? / Che fa l’aria infinita, e quel profondo / Infinito seren? Che vuol dir questa / Solitudine immensa?”.
Non è forse casuale che un’immagine notturna apra le prime pagine dell’intero Zibaldone (“Era la luna nel cortile”…) e accompagni poi l’autore sulla soglia dei più indimenticabili suoi versi, come quelli in cui invoca la “Placida notte, e verecondo raggio / Della cadente luna”, quelli in cui si rivolge alle “Vaghe stelle dell’Orsa…” o quelli nei quali confida, in una neralba atmosfera, i suoi dolorosi ricordi (“O graziosa luna, io mi rammento…”). Le ore notturne – quando “tutto posa il mondo” – sono una presenza costante nella poetica leopardiana, come dimostrano le annotazioni che l’autore di tanto in tanto inserisce senza preavviso nei suoi scritti, portandoci nell’hic et nunc del suo impegno creativo: “Stridore notturno delle banderuole traendo il vento”; e altrove: “Vedendo meco viaggiar la luna”. Sono momenti fissati per sempre in rapide istantanee, semplici appunti capaci di favorire l’immedesimazione e quasi farci sentire al suo fianco, alla scrivania o negli istanti immediatamente prima del sonno: “Sento dal mio letto suonare l’orologio della torre. Rimembranze di quelle notti estive nelle quali essendo fanciullo e lasciato in letto in camera oscura, chiuse le sole persiane, tra la paura e il coraggio sentiva battere un tale orologio”.
Le descrizioni della notte sono per Leopardi “poeticissime” perché “confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga”
Di vertiginosa profondità è poi l’immagine della sera in cui, nella sua stanza, ascolta provenire dalla strada, “lontanando morire a poco a poco”, il canto di un passante, immortalandolo come significativa presenza nei versi – pubblicati proprio cento anni fa – che chiudono La sera del dì di festa. Nello stesso periodo annota infatti: “Dolor mio nel sentire a tarda notte seguente al giorno di qualche festa il canto notturno de’ villani passeggeri”. In un tempo non troppo distante da noi, nel quale gli uomini vivevano più da vicino il rapporto con la natura circostante, il sopraggiungere delle tenebre viene dai poeti colto con precisione, registrando l’incedere inarrestabile delle ombre (“Spento il diurno raggio in occidente, (…) Ecco turbar la notte, e farsi oscura / La sembianza del ciel”, scrive ancora) e fissando l’inafferrabile passaggio tra luce e oscurità. Il soffio del vento, un’eco lontana, un rumore di passi diventano nella delicata e maestosa cornice del tempo notturno qualcosa di più di ciò che essi sono normalmente. E’ Leopardi stesso a spiegarcelo: “Le (…) descrizioni della notte (…) sono poeticissime, perché la notte confondendo gli oggetti, l’animo non ne concepisce che un’immagine vaga, indistinta, incompleta” (28 settembre 1821). L’avanzare del buio è momento di suggestività senza eguali, nel quale il soggetto si trova più intensamente al cospetto dell’immensità che lo circonda e la percezione delle cose pare farsi più densa e vibrante. Nella poesia, nella pittura, nell’arte, la notte sembra occasione di un’osservazione privilegiata di sé, il luogo di quella solitudine che, ripiegata sull’interiorità, dischiude la più intensa compagnia.
Accompagnato dal silenzio il tempo notturno dà maggiore rilievo ai pensieri, favorisce un’altrimenti sconosciuta immersione in sé stessi, mentre il carattere etereo che nella penombra le cose assumono le riveste di mistero: è qualcosa di analogo a ciò che accade nella forma musicale del Notturno, ideata da John Field nel tardo Settecento ma portata a sviluppi assoluti da Frédéric Chopin: il carattere crepuscolare delle sue partiture diviene occasione di un’introspezione che solo il buio delle tenebre – sottraendo allo sguardo ciò che è lontano – può favorire, permettendo all’autore di indagare, come al tenue bagliore di un focolare, gli angoli più nascosti del proprio sentire.
Il carattere crepuscolare delle partiture di Chopin diviene occasione di un’introspezione che solo le tenebre possono favorire
Già nei testi più antichi lo stupore che il buio suscita trova spazi ammirevoli, se in un celebre passo dell’Iliade Ettore e Aiace interrompono, proprio per il sopraggiungere dell’oscurità, il loro duello: “Abbian riposo le nostr’armi, e cessi / la tenzon. Pugneremo altra fïata / finché la Parca ne divida, e intera / all’uno o all’altro la vittoria doni. / Or la notte già cade, e della notte / romper non dêssi la ragion”. La discesa delle tenebre evidenzia il misterioso “divenire” della realtà e la notte – violata dall’uomo contemporaneo con le sue luci artificiali, ma percepita come sacra e dunque religiosamente rispettata dalle civiltà antiche – impone a ognuno di fermarsi dinanzi alla sovranità della natura. Il tramonto (come, fin dalla preistoria, il sorgere del sole) diviene segno del mistero che regge le sorti del mondo e a cui l’uomo sa di doversi inchinare. Si spiega forse in tal senso, nei poemi omerici, l’attenzione reiterata per la formula che chiude più d’una scena: “Tramontò il sole, si velarono d’ombra le strade”. Analogamente Telemaco, nell’incipit poderoso e per certi versi a sé stante dell’Odissea, dopo gli inaspettati avvenimenti che l’hanno coinvolto conducendolo alle soglie dell’età adulta, si reca nella sua stanza per dormire ma ricolma il silenzio con i suoi vorticosi pensieri: il dialogo con Atena, l’invito di lei ad assumersi le responsabilità, il desiderio di prendere il largo (nel mare ma, fuor di metafora, nella vita) alla ricerca del padre: “E là, per tutta la notte, avvolto in morbida lana, Telemaco pensava in cuor suo al viaggio che gli aveva suggerito la dea”. Ancora una volta la notte – tenue e al contempo drammatica – diviene il luogo di un dialogo interiore, di una presa di coscienza di sé.
Tra accalmie e turbamenti, quiete ed angosce, l’arte e la letteratura ci svelano la notte nelle più diverse sembianze, nella sua identità polimorfa, mutevole, ma sempre irresistibilmente affascinante: “Mi volgo / verso la sacra, ineffabile / misteriosa notte”, scrive Novalis. E’ facile, così, che la mente ritorni alla sequenza, dolorosa e dolce a un tempo, dell’Innominato di Manzoni, che dopo l’incontro con Lucia si ripara – quasi vittima d’un bene sconosciuto – nella sua stanza “con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio”, così imponenti ormai che “tutto gli appariva cambiato”. Il buio in cui egli è immerso “rivoltandosi arrabbiatamente nel letto” accoglie la presenza ossimorica di quella “rabbia di pentimento” (“io domandar perdono? A una donna?”) che gli sottrae ogni possibilità di riposo, o almeno di distrazione, costringendolo a fissare con gli occhi della mente (curiosamente la stessa espressione che compariva in Omero) la figura, piena di fragilità e di forza insieme, della ragazza che sta originando la sua radicale conversione.
La letteratura e i soldati in trincea: Mario Rigoni Stern osserva il firmamento farsi inaspettato legame con gli affetti lontani
Come non rievocare poi, in un frangente a noi più vicino, la notte che si fa cornice di drammatici episodi di guerra, come l’“intera nottata / buttato vicino / a un compagno / massacrato” icasticamente descritta da Ungaretti, che tuttavia si trasforma in occasione di un repentino, caravaggesco contrasto con l’attaccamento alla vita (“ho scritto / lettere piene d’amore”) e con la possibilità di riconoscere più distintamente la propria identità d’essere umano (“In quest’oscuro / colle mani / gelate / distinguo / il mio viso”). Commovente, in quel contesto, l’antitesi tra la notte silenziosa, cadenzata da brevi turni di riposo dei soldati in trincea e la possibilità, in quegli stessi istanti, del rinnovarsi della speranza, come nel passo in cui Mario Rigoni Stern osserva il firmamento farsi inaspettato legame con gli affetti lontani: “Le stelle che splendono di sopra a questa isba sono le stesse che splendono di sopra alle nostre case”. Sono istanti fuggevoli ma capaci di lasciare un segno, ponendo l’umanità e le sue limitate, talora irrazionali vicende dinanzi all’orizzonte infinito dell’essere: “Il cielo era stellato, sfavillante, – scrive Dostoevskij in Le notti bianche – tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo così potessero vivere uomini irascibili ed irosi”.
La notte è un frangente che pare, per dirla con le parole di Clemente Rebora, “vigilare l’istante” dove risiede l’avvenimento della poesia
Lungi dall’essere un vuoto, il silenzio diviene il contesto in cui le cose appaiono nel loro maggiore rilievo. E’ nelle ore notturne che Fernando Pessoa coglie “una differenza nell’anima / e un vago singulto”, l’emergere forse di quelle che Umberto Saba definirebbe “acute / dilaceranti nostalgie”, in una sorta di insolita epifania del reale: “Nel cielo azzurro tutte le stelle / paion restare come in attesa”, scrive Giovanni Pascoli in un suggestivo verso. Nel componimento intitolato Imitazione, anche Saba offre una descrizione dell’ora del tramonto (“Sfuma il turchino in un azzurro tutto / stelle. (…) La luna non è nata, nascerà / sul tardi”) e proprio in quell’istante percepisce l’emergere di una chiarezza inaspettata: “E in me una verità / nasce, dolce a ridirsi”. E’ nell’ora della sera che le cose – anche quelle apparentemente di poca importanza – si rivestono di intensità, offrono a chi sia disposto a sostare l’esperienza della densità dell’istante, dello spessore di ogni attimo, dello sconosciuto rilievo della realtà circostante. Nulla è ordinario per colui che abbia sperimentato la profondità dello sguardo, come ancora Saba chiarisce: “Io siedo alla finestra, e guardo. / Guardo e ascolto; però che in questo è tutta / la mia forza: guardare ed ascoltare”. La notte è un frangente che pare, per dirla con le parole di Clemente Rebora, vigilare l’istante: la possibilità di cogliere – nell’infrangersi della frenesia che accompagna le ore diurne – il valore di momenti apparentemente ordinari, come quello fissato nei versi di Angelo Poliziano: “La notte che le cose ci nasconde / tornava ombrata di stellato ammanto, / e l’usignol sotto le amate fronde / cantando ripetea l’antico pianto”. Proprio qui risiede l’avvenimento della poesia, come sguardo che penetra l’apparenza, offrendo all’attenzione l’occasione di spingersi – per usare le parole di Montale – in “silenzi in cui le cose / s’abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto” o la possibilità di sorprendersi – come recita un incisivo verso di Mario Luzi, “presente in questo attimo del mondo”.
Ecco allora l’inedita intensità con cui Pascoli, tornando a sera verso casa, nell’incipiente oscurità ascolta il canto degli uccelli (“Io sentìa quelle / voci dell’ombra, nel silenzio, chiare; / e mi pareva un canticchiar di stelle”) o il verso del notturno assiolo sovrapporsi all’incedere dei carri sulla strada (“Un chiù singhiozza da non so qual torre. / E’ mezzanotte. Un doppio suon di pesta / s’ode, che passa. C’è per le vie lontane / un rotolìo di carri che s’arresta”). Ed ecco finalmente la quiete delle “taciturne costellazïoni” porre termine alle agitazioni del dì: “Il giorno fu pieno di lampi; / ma ora verranno le stelle, / le tacite stelle”. Ma ancor più sorprende, nella pascoliana “notte nera come il nulla”, l’accadimento per così dire d’un balzo verticale, vertiginoso e improvviso: nel tacito cuore dell’oscurità (mentre “dormono l’acque, i monti, le brughiere”) il grande silenzio è solcato a un tratto da una voce materna (“un canto / (…) di madre, e il moto d’una culla”), ed è lì che lo sguardo – con la stessa prospettiva che si osserva in Notte stellata sul Rodano di Van Gogh, dipinto solo tre anni prima – immediatamente si sposta dal limite del quotidiano alla vastità dell’universo, con un gesto che crea tra queste due dimensioni un inatteso, profondo legame: il bimbo “piange; e le stelle passano pian piano”.