Un duro colpo alla libertà d’espressione nell’intrattenimento statunitense, tra censure politiche e crisi economica del settore. Dietro la decisione, secondo molti, pesa l’influenza dell’Amministrazione Trump e le tensioni con i media critici
La sconcertante notizia della prossima e definitiva chiusura del “Late Show”, il tv talk notturno americano lanciato più di trent’anni fa da David Letterman e da un decennio ereditato in conduzione da Stephen Colbert, getta un’ombra ancor più scura sui margini di libertà espressiva in un intrattenimento un tempo ammirato e imitato per la sua licenza d’essere irriverente nei confronti del potere. Con Trump-2 è tutta un’altra aria e all’assenza di consenso o, peggio, al sollevarsi di una voce critica e sfottente, si replica in stile Terminator, come ha annunciato lo stesso host che, dopo esordi balbettanti, aveva raccolto nel modo migliore l’eredità di Letterman, piazzando il suo solidamente al primo posto degli ascolti tra i talk notturni, grazie al suo humour composto, tagliente, stiloso. La comunicazione Colbert l’ha pronunciata con toni dolenti: a maggio si chiude, Cbs ci liquida e non sono solo io ad andarmene, ma è il format a venire pensionato.
Di fronte ai rumorosi mugugni del pubblico in sala, ha chiuso amaramente: “Condivido tutto il vostro dispiacere”, ha detto Stephen Colbert. Dalla casa-madre si sono affrettati a far sapere che la dolorosa decisione è stata presa esclusivamente per motivi finanziari: il mercato dei talk americani, genere un tempo florido e influente, si è pesantemente ristretto negli ultimi anni. Sono numerosi gli show che hanno chiuso i battenti (Conan O’Brien, per citarne uno) e il flusso pubblicitario ha subìto un violento ridimensionamento, addirittura del 50 per cento. Del resto oltreoceano sono proprio le modalità di consumo visuale a essersi modificate radicalmente: è di questi giorni la notizia che per la prima volta in assoluto il consumo video via streaming, quello delle piattaforme on demand, ha superato quello televisivo e di altre forme d’intrattenimento sul piccolo schermo e la migrazione delle star di settore verso altri generi di spettacolo ne è una diretta conseguenza.
Eppure, chiudere il “Late Night” significa incidere direttamente sull’abitudine degli americani, in particolare delle metropoli, su quel consolidato gusto dell’ultima risata prima di andare a dormire, ed equivale anche a rinunciare a una franchigia potente, gloriosa, passibile di rilanci e capace di far sentire la sua voce nei momenti che contano. Appunto. La malconcia compagine progressista ci ha messo un istante a reagire alla notizia di questa liquidazione chiamando in causa motivazioni politiche: Colbert nei suoi stand up è un feroce critico del presidente americano Donald Trump, al quale ogni giorno dedica battute al curaro. Del resto il “Late Night “non ha mai nascosto un’impronta autoriale tipicamente radical, a partire dai tempi della love story di Letterman coi coniugi Obama e attraverso il sostegno (ben più tiepido) per i Clinton. A Trump invece, questa ora di comicità & celebrità ha sempre riservato soltanto amari calici: tre giorni prima dell’annuncio Colbert aveva etichettato come una “grassa tangente” il patteggiamento da 16 milioni di dollari raggiunto dalla Paramount, proprietaria della Cbs, coi rappresentanti del presidente per sanare eventuali danni provocati da un montaggio strumentale di un’intervista rilasciata da Kamala Harris al programma “60 Minutes”.
Un risarcimento assai poco giustificato, nei confronti del quale Colbert e molti altri opinionisti hanno rivolto i loro strali. Dev’essere stato il passo d’addio di una traiettoria televisiva ormai nel mirino della Casa Bianca: come hanno subito denunciato il senatore democratico Adam Schiff della California (ospite in quella stessa puntata dello show) e poco dopo dalla veterana Elizabeth Warren del Massachusetts, la mossa è spudoratamente politica. Paramount da tempo è in attesa del via libera governativo all’indispensabile merge con Skydance, e la testa di Colbert e dell’intero laboratorio del “Late Show” sono divenuti merce di scambio per rilasciare le autorizzazioni necessarie. E’ un altro giro di vite al bavaglio mediatico promosso dalla leadership trumpiana: è di poche settimane fa l’annuncio dei tagli dei finanziamenti a favore della National Public Radio e al Public Broadcasting Service – la molto rispettata emittente tv Pbs –, servizi informativi e culturali pubblici apertamente accusati dal presidente di propaganda in favore della sinistra e target di tanti suoi attacchi durante la campagna elettorale. Il defunding, per una cifra che può sfiorare il miliardo di dollari attacca anche le radio locali, un sistema informativo interconnesso alla vita dell’America profonda e va a braccetto con la strategia di smantellamento dell’Agency for Global Media a cui fanno capo Voice of America e Radio Free Europe. Il messaggio è che non c’è spazio per il dissenso nella visione trumpiana della nazione e che l’edificazione di questo tentacolare Polifemo socioculturale configura un futuro così fosco, da far sperare che il desiderio di reagire e ritrovare uno spirito smarrito trovi in fretta l’energia per produrre un cambiamento.