Il valore degli immigrati per l’economia italiana, fuori dalla propaganda

Dal 2019 al 2024 l’Inps ha registrato 1,5 milioni di lavoratori in più: la metà sono extracomunitari. L’impatto è positivo sull’occupazione, le entrate fiscali, la sostenibilità delle pensioni e la demografia. Gli stranieri non vanno “ringraziati”, ma bisognerebbe riconoscere il loro contributo

Due giorni fa su Repubblica, Tito Boeri invitava a uscire dalle false narrative sull’immigrazione per discuterne sulla base delle evidenze. Anche se le rispettive propagande affermano che il centrosinistra è per l’accoglienza indiscriminata mentre il centrodestra per l’azzeramento dei flussi, la realtà dice che i governi di centrodestra autorizzano ingressi più ampi.

Il decreto Flussi del governo Meloni prevede 500 mila ingressi, di cui 164 mila nel solo 2026. Il governo Berlusconi arrivò a 147 mila. Mentre i governi di centrosinistra hanno autorizzato flussi più contenuti: 48 mila Letta, 14 mila Renzi e 31 mila Gentiloni. La ragione per cui la destra apre all’immigrazione, dice Boeri, è la forte domanda di lavoro da parte delle imprese.

Queste affermazioni, che sono spesso contrastate da una certa retorica di destra, trovano conferma nell’ultimo Rapporto annuale dell’Inps. Un grande contributo al boom occupazionale di questi anni è arrivato dagli stranieri. Dal 2019 al 2024, scrive l’Inps, gli assicurati (i lavoratori che hanno versato contributi) sono aumentati di circa 1,5 milioni, con una crescita del 5,9%. Ma un contributo “particolarmente rilevante” è arrivato dai lavoratori extracomunitari: +28,8%, ovvero +751 mila nell’intero periodo e +201 mila solo nell’ultimo anno.

In pratica dal 2019 al 2024 la metà dei nuovi assicurati è stata di extracomunitari: il tasso medio di crescita dell’occupazione tra gli stranieri è stato il quadruplo di quello totale (6,9% contro 1,7%). Ora gli stranieri rappresentano il 15,3% di tutti gli assicurati, in aumento rispetto al 13,5 per cento del 2019, ma con un’incidenza superiore tra i più giovani che tocca il picco attorno a 37-38 anni con una quota del 21% (uno su cinque). Naturalmente in questi numeri mancano tutti quelli che non hanno versato contributi, cioè i lavoratori in nero, la cui incidenza è ovviamente superiore tra gli stranieri.

L’altro dato rilevante è quello che mostra la forte dipendenza di interi settori da manodopera non italiana: gli impiegati stranieri sono il 15% del totale nell’industria (il 25% tra operai/apprendisti), il 23,8% nel Made in Italy (tessile-calzature-mobili), il 25% in noleggio e agenzie di viaggio, il 25,8% in alloggio e ristorazione, il 27,3% nelle costruzioni. Da questi numeri dell’Inps sono esclusi lavoratori domestici e agricoli, due categorie dove la quota di stranieri è ulteriormente più elevata.

Inoltre non è vero che gli immigrati “rubano” il lavoro agli italiani, anzi. Nel Rapporto l’Inps ha effettuato un’analisi specifica dell’effetto sui lavoratori italiani dell’inserimento degli stranieri nel mercato del lavoro. Ebbene, la conclusione è che “una maggiore presenza di immigrati induce uno spostamento dei lavoratori nativi verso mansioni meno routinarie e più cognitive. Tale effetto risulta più marcato per i lavoratori nativi non qualificati”.

Insomma, un apporto fondamentale al boom occupazionale di questi anni post Covid (governi Draghi e Meloni) è arrivato dagli stranieri, che hanno contribuito alla crescita economica del paese e all’incremento delle entrate fiscali e contributive: in questo modo il governo ha potuto riequilibrare il bilancio fortemente deficitario, ridurre le tasse anche agli italiani che fanno parte del ceto medio-basso e rendere più sostenibile il sistema previdenziale.

Questo aspetto, il fatto cioè che gli immigrati paghino le nostre pensioni, è spesso negato e irriso dalla destra. Ma è innegabile. La Ragioneria dello Stato, nel rapporto sulla sostenibilità del sistema pensionistico, prevede un flusso migratorio netto di circa 165 mila persone all’anno per i prossimi cinquant’anni. Senza questo apporto, il sistema non regge: senza immigrati, difficilmente chi oggi paga i contributi troverà chi gli pagherà la pensione quando sarà anziano. E questo mostra quanto la diffusione delle paure sulla “sostituzione etnica” sia sballata: con una demografia così avversa l’Italia ha molto di più da temere, per la sua tenuta economica e sociale, se gli immigrati iniziano a non venire più.

La destra si focalizza – e correttamente – sull’incremento della natalità. Ma ci sono almeno tre problemi. Il primo è che queste politiche, se efficaci, produrranno effetti sul mercato del lavoro tra almeno 20 anni. Il secondo è che queste politiche non stanno avendo effetto: il tasso di fecondità è in costante calo. Era, secondo l’Istat, di 1,44 figli per donna nel 2008 ed è sceso a 1,25 nel 2021 e a 1,20 nel 2023. Il terzo problema è che la natalità, tra le più basse in Europa e nel mondo, è già oggi tenuta su dagli stranieri: la fecondità delle donne italiane è 1,14, mentre tra le donne straniere è 1,79.

Ciò non vuol dire che gli italiani debbano “ringraziare” gli stranieri, ma semplicemente riconoscere il loro contributo in un rapporto che – quando funziona nella legalità – è reciprocamente benefico. Naturalmente l’immigrazione clandestina ha i suoi risvolti di emarginazione e illegalità, con pesanti conseguenze spesso sulle classi più deboli. Ma proprio per questo motivo, il governo dovrebbe cambiare le procedure che spingono verso la clandestinità e ampliare i percorsi che includono nella legalità.

Per poterlo fare con il consenso più ampio basterebbe, ogni tanto, riconoscere il silenzioso e grande impatto positivo dei lavoratori stranieri per l’economia e la società italiane.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali

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