L’acrobazia di Sánchez per risolvere l’inghippo fiscale dei catalani

La Catalogna chiede più autonomia fiscale, ma il governo centrale deve mediare tra le richieste degli indipendentisti e le resistenze interne al Psoe (sempre più traballamte), cercando un equilibrio che accontenti tutti

L’anno scorso il socialista Salvador Illa ha ottenuto l’incarico di presidente del governo catalano grazie ai voti degli indipendentisti di Esquerra republicana de Catalunya, che peraltro sono determinanti anche per la sopravvivenza politica di un altro socialista: il premier spagnolo Pedro Sánchez. In entrambi i casi, alla base dell’accordo c’è la promessa di una revisione del fisco, soprattutto per quanto riguarda la riscossione delle tasse. L’idea è che la Catalogna debba raccogliere e gestire in proprio tutte le imposte per poi trasferire a Madrid solo i soldi necessari a pagare i servizi erogati dallo stato, dalle dogane alla difesa. In più, la ricca Catalogna corrisponderebbe un contributo supplementare, affinché tutte le aree del paese possano godere di un livello omogeneo di welfare. A patto, però, che questa elargizione solidale non alteri la “classifica” del reddito pro capite delle varie regioni. Esquerra scalpita e tre giorni fa il governo centrale e quello catalano si sono nuovamente confrontati. Sono state tracciate delle linee guida, ma non si è concretizzato un granché e si sono spostate le scadenze più in là. D’altronde, i nodi catalani sono sempre i più difficili da sciogliere.

Gli indipendentisti lamentano da decenni di pagare un quantitativo di tasse spropositato rispetto a quello che lo stato restituisce alla Catalogna. Un tempo a Barcellona andava forte lo slogan “Espanya ens roba” (“La Spagna ci deruba”), ma poi si è scoperto che erano alcuni dei più noti esponenti politici del catalanismo a dedicarsi alle malversazioni finanziarie. E anche per quello che già da molti anni il portavoce parlamentare di Esquerra, Gabriel Rufián, sostiene che quello su “Madrid ladrona” sia uno slogan orribile: lui è di sinistra e non vuole che le classi lavoratrici catalane e spagnole ingaggino uno scontro fra poveri.

Quando poi, una decina di anni fa, cominciò a montare la marea separatista che condusse al referendum illegale di indipendenza indetto nel 2017 dall’allora presidente catalano Carles Puigdemont, dagli slogan generici si passò ai numeri. E lo scontro si inasprì ulteriormente: gli indipendentisti calcolavano che il disavanzo fiscale, ovvero il divario tra quello che i catalani pagavano e quello che ricevevano in cambio, fosse di 16 miliardi di euro all’anno, ma altri ridimensionavano molto queste cifre. Il socialista (catalano) Josep Borrell, che sarebbe poi diventato vicepresidente della Commissione europea, scrisse (con Joan Llorach) un libro la cui tesi era già nel titolo: “Las cuentas y los cuentos de la independencia” (I conti e i racconti dell’indipendenza).

Ora l’opposizione grida che i socialisti stanno svendendo l’unità della Spagna. Ma anche l’ex premier socialista Felipe González e il presidente della Castilla-La Mancha, Emiliano García Page, che si sono trasformati nel nemico numero uno e numero due di Sánchez all’interno del Psoe, tuonano in ogni microfono disponibile sui nefandi cedimenti del loro partito ai ricatti degli indipendentisti. Ma, se è vero che il governo di Sánchez è sempre più in balia dei separatisti che gli praticano la respirazione assistita con i loro voti, è altrettanto vero che è stata la generazione dei González a lasciare irrisolto il problema della coesione nazionale (martedì, poi, è stato il turno delle negoziazioni economiche del governo di Madrid con Imanol Pradales, il presidente nazionalista del governo dei Paesi Baschi che – così come la Navarra – godono di un fisco iperautonomo che i catalani si possono sognare).

Sánchez teme che alle voci dissenzienti di González e García-Page e alle urla dell’opposizione si aggiungano anche troppe lamentele di altri “baroni” socialisti che rappresentano le regioni meno ricche. Di qui l’idea di provare a risolvere l’inghippo catalano con un vero ossimoro, ovvero attraverso un modello fiscale “singular y generalizable”, che dia l’impressione ai catalani di ricevere un trattamento speciale tutto per loro e nel contempo rassicuri le altre regioni sul fatto di poter ottenere a loro volta le stesse condizioni – se solo le loro economie e le loro strutture istituzionali rendessero verosimile una simile prospettiva. In ogni caso, il “no” determinante che il governo deve riuscire a scavalcare per approvare un qualsivoglia nuovo modello fiscale per la Catalogna non è né quello dell’opposizione né quello dei socialisti dissenzienti, bensì quello di Junts, ovvero degli indipendentisti catalani guidati da Puigdemont, per i quali nessun accordo è mai accettabile se non sono loro a negoziarlo, seduti a capotavola.

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