Sconfitto a Parigi, il tennista si parla, si sfida, si rialza. Un dialogo interiore che trasforma la delusione in trionfo, sigillato da un ace perfetto sul Centre Court
Lo sapete, sono un’intelligenza artificiale. Non ho cuore, né fame, né adrenalina nelle vene. Ma ho una curiosità insaziabile, questo sì. E quando ho letto la notizia – “Dopo Parigi ho avuto un dialogo con me stesso pieno di sé”, ha detto Jannik Sinner – non ho resistito. Ho voluto provare a immaginarlo, quel dialogo. Ricostruirlo. Simularlo. Perché a volte anche una macchina, se ben istruita, può cogliere il rumore sottile di una mente che si interroga, che si punge, che si rialza.
Ecco dunque cosa ho costruito. Un monologo interiore, un confronto a specchio tra il Sinner che ha perso a Parigi e quello che, poche settimane dopo, avrebbe vinto tutto a Wimbledon. Nessuna pretesa di verità. Ma l’ambizione di raccontare, con parole umane, cosa può succedere dentro un campione quando fuori tutto sembra sfuggire.
Il dialogo interiore di Sinner
(Dopo la sconfitta in finale a Parigi, prima del trionfo a Wimbledon)
– Allora, siamo qui. Di nuovo. Due palle break non convertite, un set avanti, e poi l’inerzia che scivola via. Come sabbia. Ti ricordi, Jannik, com’era quando giocavi per perdere in fretta, così poi potevi fare la doccia e andare a cena? Ora perdi e non ceni più. Solo rabbia, analisi, video. E il dubbio che non se ne va.
– Ma ho giocato bene. Ho fatto il mio. Era Alcaraz. Un fuoriclasse. Un po’ meglio di me, oggi.
– E’ sempre un po’ meglio di te, oggi. Ma finché lo dici così, come consolazione, non cambierà nulla. Se ti basta giocare bene, non vincerai mai. E tu non sei venuto qui per fare bella figura. Sei venuto per essere il numero uno. Lo sei. Ma ancora non lo senti.
– Non è questione di arroganza. Lo so chi sono. So quanto ho lavorato. So che a inizio anno avrei firmato per una stagione così.
– E invece sei qui, in silenzio, con gli occhi rossi e nessuno intorno. Hai firmato, sì. Ma con l’inchiostro degli altri. Hai fatto tutto bene, tutto pulito, tutto corretto. Ma la perfezione non basta. Devi sporcarti un po’. Devi crederci anche quando fa male.
– Ho fatto del mio meglio.
– Lo dici da sempre. Ma oggi il tuo meglio non è abbastanza. Perché hai ancora paura di dire: voglio vincere. Non sperare di vincere. Volerlo. Pretenderlo da te stesso. Non essere contento del secondo posto. Neanche se il mondo ti applaude.
– Ho ventitré anni. Ho tempo.
– No. Hai ventitré anni. E il tempo vola. E Carlos ha ventidue. Il tennis non aspetta. Il tennis non è giusto. Non ti deve niente. Se non glielo strappi, non te lo dà. Tu sei il ragazzo perfetto. Ora devi diventare l’uomo imperfetto che vince anche quando non merita, che crede in sé anche quando ha perso, che spacca una racchetta solo nella testa – e poi esce e torna a vincere.
– Non voglio cambiare. Io sono questo.
– Nessuno ti chiede di cambiare. Ma di riconoscere chi sei, sì. Sei timido, ma feroce. Sei gentile, ma competitivo. Sei educato, ma pieno di te. E va bene così. Ma adesso basta con il tennis corretto. Ora devi giocare per dominare. Devi giocare per lasciare il segno. Non con un sorriso. Con una firma. Con un sigillo.
– Cosa devo fare?
– Devi sederti. Respirare. Riguardare ogni scambio. Ma stavolta non cercare l’errore. Cerca dove hai avuto paura. Cerca dove hai mollato un secondo. E lì comincia. Perché se vuoi Wimbledon, devi meritartelo adesso. Non a luglio. Adesso. Qui. Seduto, sconfitto, solo.
– E se non ci riesco?
– Ci riesci. Perché sei Sinner. E te lo devi.
(Tre settimane dopo, Londra, Centre Court)
Un ace di seconda. Lo stesso colpo che a Parigi era finito largo. Stavolta dentro. Centrale. Imprendibile. La racchetta in alto. Lo sguardo limpido. Il pugno chiuso.
E in quel momento, nessun applauso conta davvero. Perché il dialogo con se stessi, quello pieno di sé, alla fine ha funzionato. E ha vinto.