Ottimisti sì, ma non ingenui sul cambiamento climatico

Una discussione sul progresso, l’adattamento e la capacità dell’uomo di rispondere agli eventi. Dialogo fra un progressista e un conservatore

Progressista: Io non ho nulla contro l’ottimismo, in teoria. Ma quando si parla di clima, vedo troppo spesso un ottimismo complice. Un modo per scrollarsi di dosso la gravità della situazione. L’idea che “tanto ce la faremo” è esattamente il tipo di pensiero che ha permesso al problema di aggravarsi per decenni. E’ lo stesso schema mentale che ci ha fatti arrivare impreparati alla pandemia o al crollo della biodiversità: sottovalutare i segnali finché non è troppo tardi.

Conservatore: Oppure, all’opposto, è l’allarmismo che ha generato paralisi. Se dici per quarant’anni che siamo alla fine del mondo, e il mondo non finisce, la gente smette di ascoltarti. L’ottimismo non è leggerezza: è fiducia nella nostra capacità di risolvere, di innovare. Senza quella fiducia, non ci sarebbe mai stato progresso. Non ci sarebbero stati vaccini, reti elettriche, digitalizzazione, né energie pulite.

Progressista: Ma senza una narrativa forte, senza una vera emergenza percepita, nessuno cambia nulla. Lo vediamo con i governi: appena il tema scala le priorità, ecco che tornano a investire nel fossile. Greta Thunberg ha fatto più lei per la coscienza climatica che decenni di rapporti tecnici dell’Ipcc. Perché è riuscita a trasformare un tema tecnico in una questione morale.

Conservatore: Ma la politica deve funzionare su base razionale. L’isteria produce cattive decisioni. I no a tutto, alle tecnologie, alle infrastrutture. In nome dell’urgenza si dicono no a rigassificatori, nucleare, perfino agli impianti eolici. Il vero disimpegno è nella paura che immobilizza, non nella fiducia. E non è vero che la paura genera sempre azione: spesso genera rifiuto, fuga, rimozione. La psicologia collettiva non è una leva a senso unico.

Progressista: Fiducia in chi? Nelle stesse imprese che hanno inquinato e nascosto la verità per decenni? La fiducia ha bisogno di basi. Oggi vedo il greenwashing, non la trasformazione. E poi diciamolo: la maggior parte delle soluzioni tecnologiche sono ancora a livello di promessa, o disponibili solo per i paesi ricchi. E’ un ottimismo che rischia di escludere. Il Sud del mondo, le comunità più esposte, chi non ha accesso a risorse, vive già gli effetti del cambiamento climatico.

Conservatore: anche un’ideologia quella di voler giudicare ogni progresso in base alla sua “purezza”. Le pompe di calore, l’agricoltura di precisione, i nuovi materiali, la riduzione delle emissioni nelle centrali: sono risultati, non promesse. E li si ottiene solo se si lavora con il mercato, non contro. Serve pragmatismo.

Progressista: Io penso che il mercato da solo non basti. La trasformazione climatica è una questione di giustizia. Servono regole, redistribuzione, una visione collettiva. E questo richiede anche un linguaggio drammatico, perché il rischio è reale: migrazioni, desertificazione, guerre per l’acqua. Chi minimizza oggi sta solo rimandando i costi a domani. E spesso quei costi li pagheranno i più fragili, non certo le classi dirigenti o gli ottimisti benestanti.

Conservatore: Nessuno minimizza. Ma i cittadini non sono stupidi. Se gli dici che il mondo finisce e poi scoprono che le città funzionano, che si può viaggiare, che si lavora e si vive, cosa pensi che pensino? Che gli hai mentito. Il punto è: il problema c’è, ma la nostra civiltà ha gli strumenti per affrontarlo. Mostrare questi strumenti è responsabilità civile. Il catastrofismo oggi è anche un prodotto culturale. Vende. Ma vende solo disperazione.

Progressista: Mostrare senza illudere. E tenendo conto che non tutti partono dallo stesso punto. Se parliamo del mondo, l’Africa è già a 45 gradi. L’India ha blackout per il caldo. L’Europa ha incendi ogni estate. Non basta dire “ce la faremo”. Bisogna spiegare chi fa cosa, quanto costa, a chi si chiede di rinunciare. E anche chi non ha voce.

Conservatore: Sono d’accordo sul fatto che la narrazione debba essere giusta, ma non per questo ansiogena. L’idea che per “mobilitare” bisogna far paura è infantile. Ci si mobilita anche per speranza. E poi: chi decide che un’emozione è più utile di un’altra? L’umanità ha sempre avuto bisogno di visione, non solo di allarme. Anche il primo uomo che ha costruito un ponte lo ha fatto con un atto di fiducia nel futuro.

Progressista: Io non parlo solo di emozioni. Parlo di responsabilità. L’ottimismo, se diventa una comfort zone, è irresponsabile. Non chiede nulla, non sfida nessuno. I progressi sono benvenuti, ma senza una spinta politica e sociale forte non sono abbastanza rapidi né abbastanza diffusi.

Conservatore: Invece io preferisco una società che lavora, che non aspetta il collasso per agire. E che riconosce le conquiste: meno emissioni per unità di Pil, più energia rinnovabile, più investimenti in ricerca. L’ottimismo è realismo operativo, non autocompiacimento. E’ voler migliorare, non celebrare. Ma se non si mostra mai il volto positivo della transizione, la gente si stanca, si disconnette, si rifugia nel cinismo o nella negazione.

Progressista: Ma ci vuole una regia pubblica. Il clima non si aggiusta con lo spirito d’impresa. E la retorica del progresso continuo è pericolosa: ha generato ingiustizie, sfruttamenti, squilibri. Non tutto si può risolvere con tecnologie e incentivi. Servono scelte difficili, cambi di stile di vita, nuove priorità.

Conservatore: Giustissimo. Ma se non valorizzi ciò che già funziona, se non credi nei margini di miglioramento, se non dai spazio a chi inventa, rischi di spegnere il motore prima ancora di partire. Essere ottimisti non è chiudere gli occhi: è scegliere di vedere anche ciò che si muove nella direzione giusta. Non tutto è perduto, e non serve urlarlo ogni giorno per svegliarsi. L’ottimismo può essere una forma di serietà, se serve a costruire e non a consolare.

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