Non solo Teddy Roosevelt e Ross Perot. Quanti sono i partitini che hanno provato a forzare il bipolarismo Usa. Ora anche Musk
E’ un super genio”, diceva fino a poco tempo fa Donald Trump dell’uomo più ricco del mondo. Elon Musk aveva nutrito la campagna elettorale repubblicana con centinaia di milioni di dollari e Trump lo paragonava a Thomas Edison. Poi è arrivata la rottura sul Big Beautiful Bill, che aumenta il debito e distrugge gli investimenti sulle rinnovabili, e così sono volati i piatti. Musk minaccia: fonderò un nuovo partito, l’American Party. Ma è un’intimidazione che spaventa davvero la Casa Bianca? Dopotutto la storia politica americana è puntellata di tentativi di distruggere il bipartitismo che dal secondo presidente, John Adams, aiuta a mantenere vivo un sistema democratico che va avanti da quasi 250 anni. Dopo George Washington, il generale ribelle visto quasi come un re – rifiutò la presidenza a vita per tornare a occuparsi della sua fattoria in Virginia – c’è sempre stata una parvenza di bipartitismo. Prima di abbandonare la politica Washington disse alla gang dei padri fondatori: “Vi avverto, nel modo più solenne, contro gli effetti nocivi dello spirito partitico”. Poco dopo Thomas Jefferson fondò i democratici-repubblicani, e Alexander Hamilton i federalisti. Da lì nasce la dicotomia bipartitica che automaticamente leghiamo all’avventura democratica statunitense spesso usata come modello utopico in Italia, ma che in realtà è stata spesso infastidita da terzi e quarti partiti, da indipendenti e da fuoriusciti. E Musk vuole infilarsi tra questi.
Un po’ di storia. Federalisti contro democratici-repubblicani voleva dire, alla fine del ‘700, stato centrale forte vs. una repubblica decentralizzata, un trend che ideologicamente ancora continua. Dopo un po’ però i democratici-repubblicani si separano e nasce il Partito democratico, germe originario di quella coalizione dem che vediamo oggi. Poi, spariti i federalisti dopo la sconfitta presidenziale del 1816, e trovandosi senza leader forti, emerge una nuova entità, i Whig, che avevano il loro bacino nella nuova middle class urbana, negli imprenditori e negli evangelici. Il bipartitismo dem-Whig è messo già in pericolo dieci anni dopo, quando nasce un movimento che fa una pressante campagna contro il fatto che gli uomini di stato siano quasi tutti membri della massoneria. William Wirt, candidato del partito anti-massonico, procuratore generale ed ex massone lui stesso, non si impegna nemmeno troppo nella campagna elettorale e ottiene quasi l’8 per cento a livello nazionale.
Poi, per sopravvivere, molti del partito saranno costretti a confluire nei Whig. Per un breve momento, poi, nella seconda metà degli anni ‘50 dell’Ottocento, un nuovo partito si instaura come alternativa ai Whig. Nasce come setta segreta, i Know nothing, cioè “non so niente”, che è quello che dovevano dire quando gli chiedevano qualcosa. Di base sono dei nativisti, e si organizzano in seguito alle massicce migrazioni dall’Europa di quegli anni, che portano alcune città ad avere più stranieri che americani. Tra il 1846 e il 1855 arrivano più di tre milioni di europei. I Know nothing odiano soprattutto tedeschi e irlandesi, e hanno paura dei cattolici perché credono in una cospirazione dei “romanisti” in funzione antiprotestante per togliere le libertà religiose all’America. E poi dicono che gli immigrati ruberanno le elezioni. Sfruttando i Whig in declino mettono su l’American Party (stesso nome che oggi vorrebbe usare Musk) e al primo colpo riescono a far eleggere 5 senatori (che allora erano solo 62) e 43 deputati. Ma la loro incapacità di una vera piattaforma politica sul grande tema degli anni successivi – la schiavitù – li fa scomparire. E proprio sul tema schiavi nasce un nuovo partito, costola dei Whig, che fa dell’antischiavismo la sua bandiera. Nasce nel 1954 il partito repubblicano. I repubblicani, a differenza dei democratici che hanno il loro bacino tra i proprietari delle piantagioni del sud, sono più forti nel nord industriale e imprenditoriale, e sono abolizionisti. Due anni dopo la loro nascita riescono ad arrivare in seconda posizione e a spazzare via i Whig dalla competizione. Ma la gara presidenziale interessante è quella successiva, quella del 1860. Qui si gioca tutto su schiavismo sì / schiavismo no – e si arriverà alla Guerra civile. I Democratici si dividono e presentano due candidati, e poi arriva un terzo partito, l’Unione Costituzionale, che proprio vuole evitare il tema schiavi e dice: non parliamone, restiamo uniti. I repubblicani invece presentano l’avvocato Abe Lincoln, simbolo dell’antischiavismo, che vince con la più bassa percentuale di voto popolare della storia, e viene poi ammazzato meno di cinque anni dopo.
Per un breve momento, poi, nella seconda metà degli anni ‘50 dell’Ottocento, un nuovo partito si instaura come alternativa ai Whig. Nasce come setta segreta, i Know nothing, cioè “non so niente”, che è quello che dovevano dire quando gli chiedevano qualcosa
Finita la guerra si torna a una sorta di apparente equilibrio bipartitico. E normalità vuol dire anche grandi finanziatori e donatori che cercano di influire sulle politiche dei due grandi partiti, e questo porta a populismi che cercano di “ripulire” il sistema. Negli anni 60 e 70 dell’Ottocento nascono infatti decine di partitini di protesta, anche in seguito alle rivoluzioni ideologiche europee. C’è il partito socialista, il partito dei sindacalisti, il conservatore Prohibition party, con un cammello come simbolo, che chiede l’abolizione degli alcolici, e poi il Greenback Labor Party, inizialmente formato da agricoltori e poi con un’agenda anti-monopolio. I candidati di questi partitini, anche se spesso hanno una base elettorale animata e fedele, finiscono poi a livello nazionale a fare pessime figure, ma allo stesso tempo anche a influire sui programmi politici degli altri partiti (in cui a volte confluiscono). Alle elezioni del 1872 James Black, del partito proibizionista, prende appena lo 0,1 percento. E quell’anno nasce un altro partito, una costola dei repubblicani, che si oppone al candidato di punta Ulysses Grant, già generale dei nordisti. I fuoriusciti, i Liberal republicans, scelgono un loro candidato, Horace Greeley, e pur di contrastare Grant i democratici evitano il triangolo e lo appoggiano, non presentando nessuno alle presidenziali. Così vediamo due repubblicani che si scontrano alle presidenziali. Ma Greeley, tipografo ed editore di quotidiani sposato con una suffragetta, oppositore del libero mercato, muore improvvisamente mentre si contano i voti. E ovviamente vince Grant. Le minacce terziste tornano vent’anni dopo quando arrivano all’attacco gli agricoltori e i contadini e anche loro lanciano un partito, il People’s Party, che ha un altro nome non ufficiale: i populisti. La loro battaglia è contro “quella manciata di altezzosi milionari che stanno raccattando tutte le ricchezze del mondo”. Il loro candidato, un ex soldato nordista e deputato dell’Iowa, James Weaver, riesce a ottenere alle presidenziali il 9 per cento, arrivando terzo.
Il ‘900 vede alcuni dei più grandi casi di terzi che cercano di infilare il cacciavite nel meccanismo bipartitico. A inizio secolo una parte della classe medio-bassa delle città del nord e delle masse delle zone rurali, non è contenta di come viene gestito il capitalismo. Non sono contenti dei super-ricchi che hanno accumulato capitali con petrolio e acciaio, ma anche con oppio e pellicce, e che influenzano la politica. Questo inizia a giocare un ruolo nelle elezioni. Il 14 settembre del 1901 il presidente repubblicano William McKinley, idolo postumo di Trump – “un presidente altamente sottovalutato, che con politiche protezioniste di dazi ha reso migliori le vite dei suoi compatrioti” – viene ucciso. Un anarchico di origine polacca gli spara con una rivoltella. Prende il suo posto il vicepresidente, il giovane aristocratico avventuriero Theodore Roosevelt.
Riconfermato coi repubblicani nel 1904, e vinto un Nobel per la pace per aver fatto accordare Giappone e Russia, Roosevelt porta avanti regolamentazioni delle corporation, cercando di dare una forma più disciplinata al laissez faire capitalista. E’ l’idolo delle masse. Dice che rinuncia a un terzo mandato (che allora sarebbe stato ancora possibile). Poi, quando il suo protetto Taft si candida nel ticket repubblicano, Roosevelt, scontento delle sue proposte economiche, decide di partecipare alle primarie, che si tengono per la prima volta e solo in alcuni stati. Teddy le vince, ma alla convention i delegati non eletti con le primarie, che sono la maggioranza, danno la nomination a Taft. E così Teddy si fonda il suo partito, i Progressisti, noto anche come Bull Moose party, con un alce come simbolo. Alle presidenziali del 1912 c’è una corsa a quattro tra progressisti, dem, repubblicani e socialisti. Roosevelt arriva secondo, spezzando il voto repubblicano e permettendo al dem Woodrow Wilson di vincere. Il socialista Eugene Debs prende il 6 per cento. Ma anche se il partito dell’alce di lì a poco chiude i battenti, molte sue proposte andranno a finire nell’agenda democratica, tra cui la costituzione di un dipartimento del lavoro e più spesa pubblica per l’istruzione. Passiamo avanti di qualche decennio. Dopo il lungo regno del cugino e nipote di Teddy, il democratico Franklin D. Roosevelt, si ripresenta nel 1968 una situazione simile a quella del 1912, con un altro terzo che disturba gli equilibri. Nixon è il candidato repubblicano, Hubert Humphrey quello dem, e poi si infila dentro l’ex democratico George Wallace, già governatore dell’Alabama e acceso segregazionista, scontento di come il suo partito sia sempre più permissivo. Il tema forte è quello. Wallace si candida con il suo American Independent Party sapendo di non vincere, ma sperando di fare in modo che gli stati sudisti che vogliono mantenere in atto la segregazione bianchi-neri, soprattutto nelle scuole, abbiano una voce, portando a ritardare a livello nazionale le politiche inclusive. Prende oltre il 13 per cento, portandosi a casa 5 stati, ovviamente tutti del sud.
Alle presidenziali del 1912 c’è una corsa a quattro tra progressisti, dem, repubblicani e socialisti. Roosevelt arriva secondo, spezzando il voto repubblicano e permettendo al dem Woodrow Wilson di vincere. Il socialista Eugene Debs prende il 6 per cento. Ma anche se il partito dell’alce di lì a poco chiude i battenti, molte sue proposte andranno a finire nell’agenda democratica
L’ultimo caso interessante in cui un terzista ha disturbato il bipartitismo, è quello di Ross Perot, miliardario del Texas e self-made-man dei computer, che si è candidato col suo Reform Party nel 1992 e nel ‘96. Nel primo tentativo il suo obiettivo è uscire dall’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) e abbassare il debito. C’è appena stata una recessione da cui ci si sta riprendendo, e l’economia diventa il tema forte che favorisce il giovane Bill Clinton contro il più esperto George H. W. Bush che vede il suo punto di forza, la politica estera, ridotta di importanza dopo il crollo dell’Urss. Perot ottiene un sorprendente 18,9 per cento, anche grazie agli spazi pubblicitari che compra in televisione, dove parla direttamente agli americani spiegando i problemi economici. Ma Clinton trionfa. I repubblicani incolpano il miliardario del Texas della loro sconfitta (ma gli studi ci dicono che il democratico dell’Arkansas avrebbe vinto lo stesso). Quattro anni dopo Perot torna all’attacco, questa volta a sfidare Clinton c’è il senatore Bob Dole, noto per parlare di sé in terza persona. Perot non riesce però a replicare il successo della prima volta, è come se il paese si fosse stancato di lui, un disturbatore divertente la prima volta ma non la seconda. E ottiene solo l’8,4, comunque un numero alto rispetto ai tentativi successivi di terzi incomodi. Anche se non con successi come quelli dei Roosevelt e dei Perot, anche le più recenti elezioni hanno visto candidarsi degli indipendenti.
Figure spesso ininfluenti, che hanno avuto i loro 15 minuti di celebrità, o qualche carica in cambio, un po’ come il fratello maggiore della serie Succession a cui viene promessa un’ambasciata in Slovenia se si ritira dalla sua illusoria campagna presidenziale, perché anche un punto percentuale conta. RFK jr, il rinnegato Kennedy no-vax figlio dell’assassinato Bobby e nipote dell’altro assassinato Jfk – “è stata la Cia!”, urla lui – si era buttato nella scorsa corsa elettorale senza un partito, e poi a un certo punto è salito sul carro di Trump. Quando Trump ha vinto è stato nominato segretario alla salute. E poi ci sono gli eterni sognatori, come quelli del Green party, che ci provano ogni anno non arrivando nemmeno alle interviste della Cnn, e che hanno ottenuto il loro massimo (2,7 per cento) giusto quando l’attivista Ralph Nader si è candidato nel 2000. Oppure i libertari, che solo di recente hanno superato – una volta – il 3 per cento. Per adesso il tentativo dell’ex donatore numero uno Elon Musk sembra più in funzione anti-Trump. una sorta di vendetta dopo il litigio e i mancati aiuti alle sue aziende. Oltre che un dispetto al sistema bipartitico che lui chiama, in modo populista, monopartitico. Musk dice che all’America serve “un’alternativa al partito unico democratico-repubblicano in modo che il popolo abbia una VOCE”. “Deportiamolo”, ha risposto lo stratega isolazionista e suo nemico Steve Bannon. Ma Musk non sembra puntare alla Casa Bianca, anche perché in prima persona non potrebbe candidarsi, essendo nato in Sud Africa. Sembra più interessato a creare caos e fare un reboot del sistema. La sua idea è quella di concentrare le sue risorse, che sono molte, sulle elezioni di metà mandato che ci saranno nel novembre del 2026 per rinnovare il Congresso. Un Congresso diviso quasi perfettamente a metà, dove è servito il voto di JD Vance per rompere l’equilibrio 50-50 in Senato per il Big Beautiful Bill. “Laser-focus”, ha detto Musk, su 2 o 3 seggi al Senato e una decina alla Camera, dove ci sono seggi in bilico, in modo da non far avere la maggioranza a nessuno dei due principali partiti, o comunque di mettere i bastoni tra le ruote durante le votazioni legislative. C’è comunque un po’ di terreno fertile per sperare, soprattutto se si hanno i soldi di Musk, di poter sparigliare le carte, dato che circa il 40 percento degli elettori Usa non è affiliato a nessun partito. Ma oggi Musk è meno celebrato di un tempo. Diventando Maga – o Dark Maga, come diceva lui – si è prima alienato i liberal che una volta lo celebravano come propulsore dell’elettrico. Poi, dopo aver litigato con Trump, è diventato un paria nella tribù dei cappellini rossi. Ora se una Tesla brucia non si sa più se è stato un trumpiano o un progressista.