L’opposizione ai meccanismi flessibili di decarbonizzazione rivela un ambientalismo miope e ideologico. Così si ostacolano soluzioni efficaci e la diffusione di tecnologie pulite nei paesi che ne hanno più bisogno
Seguendo il solito stanco copione, la proposta della Commissione per i target di decarbonizzazione al 2040 è stata accolta dai soliti strepiti contrapposti. Da una parte, c’è chi vede l’obiettivo del 90 per cento come una manifestazione di insensibilità ideologica rispetto alle sorti dell’economia; dall’altra, i movimenti ambientalisti più radicali che giudicano ogni elemento di flessibilità introdotto dalla Commissione una corruzione dello schema target-enforcement cui di solito Bruxelles si attiene per promuovere le sue politiche green. Destinatario delle accuse degli ambientalisti è il commissario olandese Wopke Hoekstra, colpevole di aver formulato l’ipotesi che una parte dell’obiettivo di decarbonizzazione possa essere raggiunto andando a ridurre le emissioni al di fuori dei confini europei. La proposta, del tutto logica, parte dal presupposto che, essendo i cambiamenti climatici un fenomeno globale, risparmiare un chilo di emissioni in Italia o in Tanzania non fa alcuna differenza dal punto di vista climatico, ma può averlo dal punto di vista economico. E’ infatti del tutto intuibile che paesi meno avanzati hanno l’opportunità di ridurre le emissioni con investimenti molto minori, magari sostituendo impianti inefficienti e obsoleti con altri più moderni oppure passando da combustibili molto inquinanti quali il carbone a fonti pulite. Oppure proteggendo le foreste tropicali e riducendo la deforestazione, con evidenti benefici non solo economici, ma di generale tutela di ambiente e biodiversità.
Oggi gli obiettivi di decarbonizzazione in applicazione dell’accordo di Parigi sono definiti attraverso i cosiddetti Ndc (Nationally Determined Contribution), che contengono i target di un paese o di una regione – nel caso europeo l’obiettivo è unico per tutti i 27 paesi. L’accordo di Parigi prevede però, nel controverso articolo 6, che si possano definire dei meccanismi di “cooperazione internazionale” che consentano ai diversi paesi di scambiarsi diritti di emissione attraverso meccanismi condivisi e garantiti dall’agenzia climatica delle Nazioni Unite. In sostanza, come propone ora la Commissione, un progetto di decarbonizzazione realizzato ad esempio in Africa può generare un credito che le imprese europee sono autorizzate ad utilizzare per rispettare i propri limiti emissivi all’interno dei sistemi europei. È questo il meccanismo che Hoekstra propone di attivare, sia pure in misura estremamente contenuta, con un limite massimo pari al tre per cento delle emissioni complessive europee.
Qual è la logica che spinge un certo ambientalismo a scendere in armi contro ogni ipotesi di flessibilità? C’è, in parte, una diffidenza legata all’esperienza, non sempre brillante, dei cosiddetti “meccanismi flessibili” introdotti dal Protocollo di Kyoto e ammessi entro determinati limiti all’interno del mercato della CO2 europeo fino alla fine della scorsa decade, che comportarono una inondazione di certificati di emissione provenienti principalmente da progetti cinesi non sempre di solidissima reputazione ambientale. Ma, in generale, alla base delle resistenze di chi dovrebbe tenacemente lavorare per promuovere ovunque e in ogni modo le migliori soluzioni di decarbonizzazione, c’è l’idea bigotta e punitiva che i ricchi debbano espiare colpe storiche e che quindi ogni meccanismo di flessibilizzazione, in particolare se correlato a strumenti finanziarizzabili quali quelli tipici dei carbon market, debbano essere eliminati. Idea sbagliata per tante ragioni, non ultima per l’impedimento che pone al trasferimento delle migliori tecnologie da chi le sviluppa, fra cui noi occidentali, al sud del mondo, che ne ha un disperato bisogno per incamminarsi su un percorso di crescita sostenibile.