Côte che sembrano montagne. Cosa ci dicono del ciclismo le strade piene di gente al Tour del France

A lato delle strade pedalate dalla Grande Boucle, si è riversato un serpentone quasi ininterrotto di persone colorate di giallo, di pois rossi, di verde e di tutti i colori dell’arcobaleno. Va così ogni anno, andava così anche negli anni bui del ciclismo, quelli funestati dal doping. A questo Tour de France però di più

Una strana sensazione di spaesamento si formava in noi nel vedere le immagini delle prime tappe del Tour de France 2025. Come se fossimo davanti a uno specchio capace di deformare ciò che osservavamo, di renderlo diverso da ciò che ci si aspettava, o quanto meno da quello che era lecito aspettarsi.

A lato delle strade pedalate dalla Grande Boucle, si è riversato un serpentone quasi ininterrotto di persone colorate di giallo, di pois rossi, di verde e di tutti i colori dell’arcobaleno. Va così ogni anno, andava così anche negli anni bui del ciclismo, quelli funestati dal doping.

A questo Tour de France però di più.

Mont Cassel è una collinetta qualunque nel dipartimento del Nord a metà strada tra Amiens e Calais. Una di quelle salite, una delle tante, sulle quali non si farà mai la storia del ciclismo. Era posizionata a distanza di sicurezza dalla linea d’arrivo della terza tappa, una frazione destinata, per forza di cose, a terminare con una volatona di gruppo. Attorno a Tim Wellens, al momento fuoriuscito dal gruppo per prendere i punti del Gran premio della montagna, due onde di appassionati si aprivano per concedergli qualche metro di spazio per passare. Una scena alpina o pirenaica. Una scena, un tempo, riservata solamente ai tapponi d’alta quota.

Una scena andata in onda non solo salendo verso Mont Cassel, ma quasi ovunque la strada salisse in questa settimana di corsa priva di salite, ma piena zeppa di côte, collinette, montarozzi. E indipendentemente dalla distanza di queste dall’arrivo.

Un attestato di amore per uno sport che ha saputo ricostruirsi dopo aver rischiato di implodere di chimica e pubblici tribunali d’inquisizione. E ora capace di attrarre a sé nuovamente la passione di un popolo che ha provato a detestarlo, ma incapace di farlo fino in fondo, capace di dimenticare ciò che è successo e dargli una nuova possibilità. Capace soprattutto di attrarre bambini e ragazzini che quel passato non l’hanno vissuto, ma che non vedono l’ora di poter andare a bordo strada con la speranza di tornare a casa con una borraccia, un cappellino, un tascapane o anche solo con quel suono di vento, catene e ruote che scorrono, con quel turbinio di colori che regala il gruppo al suo passaggio.

Di banchine piene ne vedremo ancora. Seguiranno i corridori sino a Parigi. Toccheranno l’apice nelle salite pirenaiche e alpine, come è sempre stato, non mancheranno altrove. Perché questo altrove è stato reso assai complicato dagli organizzatori della Grande Boucle.

C’è voglia di vedere cosa sarà di questo Tour de France. Perché se è un dato di fatto che Tadej Pogacar ha messo in chiaro, a Rouen a cronometro a Mûr-de-Bretagne che lui è il più forte – e per distacco –, lo è altrettanto che Jonas Vingegaard e Remco Evenepoel non hanno la minima voglia di essere spettatori di un’altra vittoria solitaria del campione del mondo. E non sono loro, sebbene in pochi, quasi nessuno a dire il vero, sia al loro livello.

Se i grossi sponsor sono tornati nel ciclismo, se il numero di spettatori a bordo strada e in tv continua ad aumentare, è soprattutto per loro. Per loro e per chi, come Mathieu van der Poel, Kévin Vauquelin, Ben Healy, Quinn Simmons, Matteo Jorgenson, Romain Grégoire e compagnia, non si è portato a questo Tour de France la paura di rischiare.

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