Un filo collega il caso Piantedosi, Almasri e il trio Putin-Erdogan-Trump: l’illusione europea di contare ancora nel gran gioco del Mediterraneo
I punti a volte bisogna saperli unire. Dunque, proviamoci. Che cosa lega, insieme, in unico romanzo, il caso Almasri, il respingimento del ministro Piantedosi, la guerra in Ucraina, le trattative con la Russia, lo scambio degli ostaggi, il futuro della Siria, il nuovo ordine in medio oriente, l’agenda americana in politica estera e l’ostilità viscerale di Trump contro l’Europa dei parassiti? I punti a volte bisogna saperli unire. E se si ha la pazienza di unire con la matita i piccoli indizi con cui abbiamo iniziato questo articolo alla fine del disegno avremo chiara di fronte a noi l’immagine di un paese che l’Italia considera strategico solo quando si parla ossessivamente di un unico tema: l’immigrazione.
Il paese in questione è la Libia ma tutti i punti che abbiamo messo in fila non sono tenuti insieme solo dal tema dell’immigrazione. Sono tenuti insieme da una questione ben più importante in cui a essere centrale non è la storia del generale Almasri ma è la storia che si nasconde dietro alla sberla mollata dalla Libia controllata da Haftar ai ministri dell’Interno dell’Italia, della Grecia e di Malta, oltre che al commissario per gli Affari interni dell’Ue. Piccola cornice per orientarci. La Libia è attualmente divisa in due aree di potere. A Tripoli, a ovest, governa il premier Dabaiba, sostenuto dalla Turchia. A est, a Bengasi, comanda il generale Haftar, appoggiato da Russia, Emirati Arabi ed Egitto. L’unico governo riconosciuto a livello internazionale è il primo. Il secondo non è riconosciuto ufficialmente ma senza dialogare con entrambi i governi provare a controllare i flussi migratori è un’utopia. La novità più rilevante degli ultimi mesi riguarda una questione tenuta d’occhio da febbraio del 2025 dai servizi segreti italiani. La Turchia, da tempo, ha iniziato a muoversi in modo sempre più disinvolto anche nella parte di Libia nella quale non esercitava un’influenza, ovvero quella di Haftar. Il figlio di Haftar, Saddam, ha visitato Ankara ad aprile 2025 (e sempre ad aprile Saddam Haftar e il fratello Belqassim hanno visitato Washington, incontrando alti funzionari statunitensi) e il Parlamento di Tobruk (quello a est, sotto il controllo di Haftar) ha ratificato un accordo marittimo con la Turchia. Obiettivo numero uno: estendere la sua influenza anche nell’est libico per ottenere vantaggi commerciali, diplomazia e spazio energetico. Obiettivo numero due: tentare di riempire il vuoto creato dall’occidente in Libia e provare a lavorare a un processo di riunificazione dei due blocchi. Il dato interessante e sorprendente che preoccupa da mesi anche il governo Meloni è che all’interno di questo riposizionamento a giocare un ruolo cruciale sono gli Stati Uniti di Donald Trump e la Russia di Vladimir Putin. La storia è complicata, ma importante. La caduta di Assad in Siria ha allontanato dalla regione la Russia e ha ridato forza alla Turchia. L’allontanamento della Russia non coincide solo con un arretramento militare ma coincide anche con un riposizionamento strategico nel Mediterraneo. In Siria, la Russia aveva ottenuto da Assad una base navale permanente a Tartus (la sola della Russia nel Mediterraneo) e una base aerea a Hmeimim, Latakia. Con il cambio di regime in Siria, cambio di regime benedetto anche dagli Stati Uniti, la Russia sta cercando un modo per avere ancora un piede nel Mediterraneo.
E nella logica della cosiddetta “discordia concors”, della discordia concorde, la Turchia, supportata in questo dagli Stati Uniti, non ha intenzione di ostacolare l’eventuale trasferimento delle basi russe dalla Siria alla Libia.
In Cirenaica, dove la Russia ha un’influenza forte, c’è il porto di Tobruk che potrebbe essere sviluppato come sostituto di Tartus, per garantire un approdo navale della Russia nel Mediterraneo, con tutto quello che ne conseguirebbe. Ad al Khadim, nei pressi della città di Marj, in Cirenaica, vi è una base aerea, già in passato usata da forze legate a Haftar, che è già a disposizione della Russia. In questo senso, è evidente che la Libia si stia trasformando nella camera di compensazione delle grandi tensioni militari che esistono in giro per il mondo. E’ evidente che la Turchia, pur non essendo alleata della Russia, cerchi dei modi per tenere aperto il dialogo con Putin (ogni trattativa fra occidente e Russia passa sempre dalla Turchia: pensate agli scambi dei prigionieri, pensate agli accordi sul grano). Ed è evidente che in questo gioco di potere gli Stati Uniti osservino questo nuovo equilibrio con particolare interesse, senza ostacolare questo disegno, nella consapevolezza che per gli Stati Uniti poter aiutare la Russia a raggiungere alcuni obiettivi potrebbe tornare utile per raggiungere altri obiettivi in altri quadranti più complessi, come in Ucraina, come in Iran. I puntini del disegno che abbiamo provato a tracciare con la matita all’inizio del nostro articolo arrivano inevitabilmente a toccare l’Italia per ragioni diverse. In Libia c’è una ridefinizione strategica in cui non riescono a giocare un ruolo né l’Europa né tantomeno l’Italia, che ha un rapporto speciale con il governo di Dabaiba, governo fino a qualche tempo fa molto legato alla Rada Force del generale Almasri. E in questo senso, a essere respinta non è solo una delegazione ministeriale: è l’illusione europea di contare ancora qualcosa nel grande gioco del Mediterraneo. E la prospettiva di avere una Libia più unificata sotto egemonia turca, con la collaborazione della Russia, con il cappello dell’America, è una pistola diplomatica, e non solo, puntata verso i parassiti dell’Europa, che avrebbero attraverso la Libia un meccanismo di ricatto pericoloso non meno di un dazio commerciale. Giorgia Meloni, lo scorso 24 giugno, nelle comunicazioni al Parlamento in vista del Consiglio europeo, come ha ricordato il nostro Luca Gambardella qualche giorno fa, ha dedicato a questo tema una parte del suo discorso. “Sono preoccupata da quello che accade in Libia, dove, dopo gli sviluppi della Siria, la Russia sta progressivamente spostando la sua influenza, perché è alla ricerca di uno stato nel quale stabilire la sua proiezione strategica dal punto di vista navale nel Mediterraneo. Ne deve o non ne deve tenere conto l’Alleanza atlantica?”. La Libia è il riflesso di un equilibrio che non vogliamo vedere, di una minaccia che non riusciamo capire, di un problema che non riusciamo a governare. E’ tutto questo ma è anche tutto altro. E anche agli occhi dei follower del trumpismo la Libia dovrebbe essere lì a ricordarci quanto l’odio coltivato dagli Stati Uniti per l’Europa non sia solo teorico, non sia solo verbale, ma sia qualcosa che ogni giorno aggiunge un tassello in più a un mosaico importante, al centro del quale vi è la consapevolezza crescente di quanto la proliferazione del nazionalismo trumpiano sia una minaccia non solo per l’Europa ma anche per l’interesse nazionale italiano. E una volta che avremo finito di perdere tempo con il ridicolo caso Almasri, forse maggioranza e opposizione troveranno il tempo di discutere di quello che rischia di diventare la Libia per l’Italia e l’Europa: non più solo una porta di ingresso per i migranti ma una porta di ingresso per dare la possibilità a tutti i nuovi e vecchi nemici dell’Europa di avere un cannone politico puntato su di noi. Meno fuffa, più realtà. Vale sempre in politica. Ma forse quando si parla di Libia vale ancora di più.