Nella vita reale e poi al cinema e in tv: non ci sono mai stati così tanti miliardari come oggi. L’effetto “White Lotus” e poi l’effetto Tina Cipollari: ricchi e poveri sono ormai tutti uguali, tranne che per le borsette
Peggio dei poveri, ammettiamolo, ci sono solo i ricchi. L’invasione dei turisti ciabattoni, che affollano treni e aerei e ristoranti con le loro cene a base di amatriciana e cappuccino alle 17,30 è terribile, d’accordo. Ma poi ci sono i ricconi che ormai affittano intere città, o almeno prendono in ostaggio i grandi alberghi e paralizzano i centri storici coi loro van e ti guardano dall’alto in basso, come se nella immaginaria business class che è diventata l’Italia tu fossi il passeggero di economy che pretende di andare a far pipì nel loro bagno.
E poi almeno i poveri non te li ritrovi sullo schermo. Sì, perché i ricchi ormai hanno invaso completamente cinema e tv. Se anni fa si vedevano solo poveri, per qualche misterioso motivo da una decina d’anni a questa parte i ricchi monopolizzano film e serie. Sono nati generi e sottogeneri, ricchi in montagna e al mare, al villaggio turistico e in famiglie disfunzionali, in campagna e in città. Diciamoci la verità, non se ne può più. I giornali americani che coniano diciture a tutta callara parlano già di “wealth fatigue”, cioè di stanca da ricconi, ma anche qui nelle colonie qualche fastidio si fa sentire, anche perché l’arte imita la vita e viceversa, dunque le serie inseguono i magnati veri che poi si rivedono in tv e diventano ancora più pazzi, e danno adito ad altre serie, sempre peggio. Nessuno sa spiegare la fascinazione crescente. Forse una peculiare sindrome di Stoccolma per cui sempre più impoveriti dall’inflazione e dalle bollette e dalle guerre godiamo a vedere questi ricconi sullo schermo, spesso in situazioni incresciose, dunque con sadismo. Lotta di classe sullo schermo, a pagamento, perché poi le piattaforme sono loro, e si ricomincia il giro.
Però già il palinsesto della realtà sarebbe fitto: ecco Musk che ogni giorno se ne inventa una, e adesso vuole fondare il suo partito, non su Marte ma qui sul pianeta terra; e il nuovo ambasciatore americano in Italia, un magnate degli alberghi di nome Tilman Fertitta, che decide di vivere sul suo yacht attraccato a Civitavecchia, snobbando la residenza ufficiale di Roma ai Parioli (ma la notizia la demmo qui noi, ancora a marzo, quando si pensava che avrebbe attraccato invece a Ostia. Sempre certi posticini); e se Trump ogni giorno lancia una paccottiglia diversa, tra profumi e telefonini, come un ambulante sulla spiaggia di Riccione, se questa insomma è la realtà, la finzione anzi la fiction segue a ruota (con fatica).
Ecco dunque su Now la terza stagione di “The Gilded Age”, la serie creata da Julian Fellowes (quello di “Downton Abbey”) su una famiglia di nuovi ricchi che si fa strada tra gli snobboni della New York di fine Ottocento; mentre su Amazon Prime c’è la seconda di “Nine perfect strangers”, ennesima variazione sul tema abbienti rinchiusi in un luogo da cui non possono scappare, è la versione “salute mentale” di “The White Lotus”, dunque perfettamente in linea coi tempi e con quella che Walter Benjamin chiamava “l’èra della leggibilità”, cioè il successo di produzioni artistiche che colgono lo spirito del tempo; dunque salute mentale come emergenza nazionale e pure editoriale. Qui abbiamo una psicologa russa sbarellata, Masha Dmitrichenko, interpretata da Nicole Kidman, che raduna una serie di presunti sconosciuti, appunto, in un ex sanatorio sulle Alpi austriache, trasformato in resort di lusso, dove i malcapitati molto liquidi verranno sottoposti a dei trattamenti molto poco ortodossi per tirar fuori traumi malcurati. A un certo punto arriva anche un super riccone pelato, papà cattivissimo di un paziente molto a modo; il papà tremendo sembra molto Jeff Bezos, mentre uno dei villeggianti più bisognosi è Murray Bartlett, che qui fa un presentatore tv caduto in disgrazia perché ha sbroccato in diretta, ma già interpretava il capo villaggio nella prima stagione di “The White Lotus”, il discendente dello sceneggiato “Hotel” anni 80. Ormai sono più le serie sui ricchi degli attori disponibili, quindi si fa confusione, ci sono sovrapposizioni, come anche con Christine Baranski, mamma embriacona nel sanatorio austriaco, e invece sorella prevaricatrice in “The Gilded Age”.
Perché appunto le pellicole a base di miliardari o milionari sono ormai sempre di più: sia film che serie, lunghe e corte, americane ed europee. In generale tutti questi prodotti ricordano molto quei magnifici film “in stile” che erano i Poirot sempre anni Ottanta con Peter Ustinov (“Assassinio sul Nilo”, “Delitto sotto il sole”, ecc.), in cui il detective belga risolveva un omicidio tra quelli che erano i ricconi dell’epoca, per cui c’era sempre la stramba dama inglese, l’ereditiera americana, il gigolò in smoking bianco…
Adesso i ruoli sono cambiati (per non parlare dei costumi) e anche le provenienze delle fortune: ora ci sono soprattutto maschi che si sono fatti da sé, e sono sempre incazzati neri. Tutte le famiglie ricche sono infelici a modo loro, verrebbe da dire, perché rivedendo questi vecchi Poirot c’era sì chi sperava in eredità o progettava vendette buttando massi tra i templi di Abu Simbel, ma quei ricchi lì sembravano più contenti e meno pensierosi, mentre ora questi nuovi son tutti infelicissimi (non solo in “Nine perfect strangers” ma anche nell’ultimo “The White Lotus” ambientato in Tailandia con menu a base di benzodiazepine, dove il già noto “effetto White Lotus” si capovolge: quell’incremento turistico negli hotel set delle serie, qui ci si chiede se possa mai avvenire, perché chi vorrebbe mai prenotare in quel covo ancorché lussuoso ma di miliardari tristi e impasticcati?
Questi ricchi arrabbiati e depressi del nuovo audiovisivo poi sono anche quasi tutti fuori di testa, come nel film “Mountainhead”, dello stesso creatore di quella che è la “Guerra e pace” sui tycoon odierni, “Succession”. Jesse Armstrong, giornalista passato alla sceneggiatura passato qui per la prima volta alla regia, fa una satira un po’ ruvida e tirata via con un gruppo di questi tech-bro e tecno-svitati alla Elon Musk o Mark Zuckerberg. In scena idiosinscrasie, diete, deliri di onnipotenza di questo gruppo di amici liquidissimi e svalvolati radunati a casa del meno abbiente del gruppo, uno che è pure immigrato ma soprattutto è solo milionario e dunque soffre come un cane per non essere miliardario (ma la sua app di “lifestyle e meditazione” forse gli farà fare il salto decisivo). Il delirio del weekend da paura porta tre del gruppo (composto da Steve Carell, Jason Schwartzman, Cory Michael Smith e Ramy Youssef) a pianificare l’ammazzamento di uno, mentre un altro è il possessore di un social che grazie alla intelligenza artificiale che genera finti video, sta causando rivolte e guerre civili in diversi angoli del globo. Il titolo è poi un riferimento a “The fountainhead”, o “La fonte meravigliosa”, non il quartiere romano ma il romanzo di Ayn Rand, la scrittrice distopica molto patriarcale che immaginava un futuro in cui gli uomini talentuosi (non ancora definiti “bro”) avrebbero dominato il mondo, senza democrazie, tasse, né signore tra i piedi (lei è la J.K. Rowling della Silicon Valley, tutti i bros che non hanno mai letto nulla hanno i suoi libri sul tecno-comodino).
Il film sa un po’ di già visto, e il fatto è che il genere è ormai usurato, e poi un tempo i film sui miliardari erano affascinanti perché nessuno sapeva come vivevano veramente costoro, che più ricchi erano e meno si facevano vedere, a meno di casi rari di svalvolati alla Howard Hughes, il matto trasvolatore che assomiglia molto a Elon Musk (e che infatti Musk odia, rivedendosi in lui). Più ricchi erano e più stavano nascosti, magari tirchissimi alla J.P. Getty coi famosi telefoni a gettoni nelle magioni miliardarie. Si sposavano come i Vanderbilt con vecchi cascami di aristocrazie decotte e prendevano i loro modi di vivere, dunque per prima cosa “never explain never complain” e “si va sui giornali tre volte sole, quando si nasce, quando ci si sposa e quando si muore”. Nel 2007 con l’invenzione dell’iPhone cambia tutto perché questi ricchi improvvisamente si trasformano in maranza che ci tengono a farci vedere ogni momento della loro esistenza ingarellandosi tra di loro (tranne la famiglia dei produttori degli iPhone, interessante, i Jobs superstiti stanno nascostissimi).
Ovvio che il cinema fa fatica a star dietro a questo palinsesto del reale. Per “Succession” scoprimmo tutti l’esistenza dei “wealth consultant” cioè gli esperti di ricchi che consigliavano gli sceneggiatori, per dettagli come l’abbigliamento del personale di servizio, non vestito con le giubbe dai bottoni dorati come in certe case romane bensì con polo sportive; nacque il concetto di “quiet luxury”; apprendemmo dei tormentosi complessi di queste classi sociali sugli aerei privati (uno dei rari momenti in cui qualcuno mette all’angolo Shiv, la figlia più sveglia e unica femmina dell’immaginario Rupert Murdoch protagonista della serie è quando un rivale le dice qualcosa tipo: bell’aereo, ma che interni di merda; citazione pressappoco testuale di una celebre battuta di Gianni Agnelli col suo amico Dino Fabbri, quello dei Fratelli Fabbri editori, quello dei “Maestri del colore”, una collana di libri d’arte a basso costo, ma subiva la rivalità avvocatesca, e insomma si comprò una Rolls Royce nuova fiammante, e l’Avvocato gli disse: “bella macchina, ma che sedili di merda. Una Rolls non può che avere poltrone Luigi XVI”, al ché narra la leggenda che Fabbri fece montare due poltrone d’epoca, vabbè).
Comunque, tornando al nostro tema; il cinema, cioè l’arte, fa fatica a star dietro alla realtà, e ci si mischia. Terminata per esempio la kermesse delle nozze veneziane, l’altro giorno la neo sposa Lauren Sanchez Bezos si filmava turgidamente alla guida di un elicottero, di ritorno dalla breve luna di miele effettuata all’hotel San Domenico di Taormina, detto da tutti ormai “The White Lotus hotel”, perché set della seconda stagione della serie. E Musk che vuole fondare il suo partito indipendente sembra tantissimo il fratello scemo di “Succession” (e nella serie a un certo punto lo convincono a desistere promettendogli di spedirlo ambasciatore in Slovenia; ma la trovata di farlo vivere sul suo yacht è talmente favolosa che non è venuta in mente neanche agli sceneggiatori americani). E Luca Guadagnino, che sta lavorando a un biopic su Sam Altman, fondatore di ChatGpt, ci metterà l’intervista (vera) data qualche tempo fa dal prode Altman al Financial Times in cui quello che è probabilmente lo Steve Jobs dei nostri anni non va al ristorante come è d’uopo per la rubrica “A lunch with”, ma cucina lui, per assicurarsi che gli ingredienti siano abbastanza sani (ma li sbaglia, e il Ft poi lo critica, mentre il marito si spupazza i figli surrogati nell’altra stanza?).
E qualcuno starà scrivendo di Bezos e dei preparativi del passato matrimonio, in cui i Bezos a bordo del loro veliero da settecento fantastiliardi scoprono che affittare Venezia costa così poco (forse rimanendo un po’ delusi. “Tre milioni? Ma allora è da poracci. L’avevo detto io di farlo a Venice Beach, ma lì con tre milioni non affitti neanche un ristorante”. Ma sarebbe bastato chiederlo anche al defunto e rimpianto Boss delle cerimonie, Don Antonio: i 3 milioni (speriamo di euro e non di dollari, col cambio attuale) donati a Venezia sono pari a meno di un terzo (10 milioni) speso per l’anello di fidanzamento per la sua bella. Un rapporto (a Milano direbbero ratio, pronunciata rescio) che qualunque famiglia di Caserta troverebbe scandaloso.
E’ tutto così, tutto confuso. Il fatto è che i ricchi non si comportano più da ricchi, ma come una versione caricaturale dei ricchi. Una volta tutto stava nel far sembrare i soldi nuovi vecchissimi. Ora è il contrario. Sembra sempre che abbiano vinto la lotteria un’ora prima. Forse è anche tutto più democratico. Uno degli accessori della sposa Bezos era la “Kelly Midas Sellier 25”, una borsa di Hermès che secondo gli esperti vale oltre 150 mila euro. E qui entriamo in un altro mistero gaudioso dei ricchi di questi anni. La bolla delle borse (o borze, alla romana), la grande bolla inflazionistica del 2025 che un giorno verrà studiata nei manuali di economia come il caso dei tulipani olandesi del Seicento (quella dei tulipani è stata una bolla speculativa sui prezzi dei bulbi dei fiori scoppiata nell’economia olandese del diciassettesimo secolo. Fu una micidiale corsa dei prezzi, la prima ad essere documentata nella storia del capitalismo). Adesso la borsa Hermès è il nuovo tulipano: nessuno ha saputo ancora spiegare perché ma è diventata il bene rifugio per eccellenza, non l’oro o i diamanti o il petrolio ma la borsa, che mette d’accordo tutti. Nel ‘18 si dice che le ragazze Romanov resistettero più dei maschi alle mitragliate dei bolscevichi nella strage di Ekaterinburg perché avevano cucite nelle vesti centinaia di diamanti, per la fuga. Oggi si sarebbero protette con le Kelly (e sarebbero probabilmente tatuate, e forse i bolscevichi le avrebbero prese, le borse, in cambio della fuga, e non avremmo Putin).
Il primo esemplare di Birkin, nato negli anni Ottanta e ispirato alla celebre cantante, è stato battuto all’asta due giorni fa per otto milioni e mezzo di euro da Sotheby’s. Nelle stesse ore il trapper Lazza (vabbè) omaggiava sua madre durante un concerto porgendole davanti al pubblico un bustone Hermès contenente una Birkin dal valore, narrano, di trentamila euro. Mantenendo una promessa, quella pronunciata qualche anno fa nel suo brano, Re Mida. “Mamma, ti regalerò una Birkin” recita, a un certo punto (ma non le ha comprato la Midas di Bezos, cattivo!). Comunque, sulla trasformazione delle borze in un bene di lusso unisex servirebbe un redivivo Gillo Dorfles. Dai miliardari globali ai trapper de noantri: non solo Lazza: “Miu Miu, Courchevel/ Tony, comprami la borsa Portami a ballare con te/ Estate a Saint-Tropez Voglio andare su uno yacht/E fumare prima di farlo a tre” canta Tony Effe nella immortale “Miu Miu”.
E poi, ricordiamo le Kelly presunte false regalate da Daniela Santanché a Francesca Pascale. E quelle nascoste nei soppalchi della coppia Totti-Blasi (ma non sottoposte ad “affido condiviso” come invece i Rolex). Per finire, nella puntata di “Uomini e Donne” del 9 maggio, l’imprenditore pugliese dal bellissimo nome di Cosimo Mino Dadorante ha regalato a Tina Cipollari una borsa Gucci da 2900 euro: “Ora però devo tornare a fatturare” ha concluso lui andandosene tra gli applausi.
Da Bezos a “Uomini e donne”, potremmo chiamarlo effetto-Cipollari: uno dei più grandi enigmi del nostro secolo: i ricchi fanno schifo quanto i poveri, ma non riusciamo a farne a meno. E mentre le borse valori sono in affanno, e tutto il settore del lusso crolla, le borsette sono il simbolo univoco della ricchezza e dello status (anzi le borzette, forse per l’instabilità generale, buone per radunare quattro cose e scappare, ci mancava la metafora, vabbè).