Perché la tecnologia non può davvero sostituire la giustizia dello sport

A Wimbledon una palla lunga riaccende il dibattito: senza Hawk-Eye, l’arbitro tace e si rigioca. Ma può la tecnologia sostituire il giudizio umano? Quando l’errore diventa algoritmo, lo sport perde l’anima

C’è qualcosa di profondamente sbagliato in una partita di tennis in cui una giocatrice vede una palla lunga, l’altra sa di averla sbagliata, l’arbitro lo sospetta, il pubblico lo mormora – eppure il punto viene rigiocato, perché la macchina non ha parlato. Non è una metafora. E’ successo davvero, al quarto turno di Wimbledon, nella partita tra Anastasiya Pavlyuchenkova e Sonay Kartal. Una palla lunga, un sistema disattivato, un giudice titubante, un game potenzialmente rubato, come ha detto la russa. Ma soprattutto, un’idea inquietante: che l’errore umano debba essere cancellato, anche a costo di sostituirlo con un errore automatico e irrefutabile.

L’All England Club si è affrettato a scusarsi, spiegando che il sistema Hawk-Eye era stato “disattivato” su un lato del campo. Ma a prescindere dal perché, la scena che si è svolta davanti a milioni di spettatori è rivelatrice di un problema più grande: la nostra crescente fiducia in una tecnologia che, se sbaglia, non può essere corretta. L’arbitro non ha preso una decisione perché aspettava l’oracolo. E quando l’oracolo ha taciuto, ha preferito rigiocare il punto – come se la verità non esistesse più senza un algoritmo che la certifichi.

E’ questo il nodo. Non che la tecnologia sia imprecisa – anzi, è sempre più accurata. Ma proprio per questo le sue omissioni diventano insopportabili. Più crediamo nella perfezione, più rifiutiamo la realtà. Più ci affidiamo al computer, meno ci fidiamo dell’occhio umano. E quando il computer si inceppa, crolla tutto: la fiducia, la giustizia, lo spirito stesso del gioco.

Succede nel tennis, ma succede ovunque. Succede nel calcio, con il VAR. Un rigore dato o non dato perché il frame scelto dall’assistente video ferma l’azione in un istante arbitrario. Un fuorigioco millimetrico sancito da linee digitali che non ammettono contesto. Una mano vista o ignorata a seconda dell’interpretazione di un braccio disegnato su uno schermo. Tutto sembra più oggettivo. Ma è solo più opaco.

Il paradosso è evidente: ci siamo detti che la tecnologia avrebbe reso lo sport più giusto. In realtà lo ha reso più contorto, più lento, più burocratico. Il VAR doveva eliminare le polemiche, e le ha moltiplicate. Hawk-Eye doveva eliminare le contestazioni, e ora genera sospetti. Perché? Perché non c’è più un volto a cui chiedere conto. Solo un dispositivo che decide, e un essere umano che lo subisce.

E così il problema non è tanto l’errore, quanto l’impossibilità di concepirlo. L’errore umano faceva parte del gioco. L’errore tecnologico è una bestemmia. Non si può ammettere, quindi non si può correggere. Se l’arbitro sbagliava, si poteva protestare, discutere, ricorrere alla memoria collettiva. Se sbaglia la macchina, non c’è margine: si rigioca, si accetta, si tace. Ma lo sport non è silenzio. E’ conflitto, è tensione, è umanità.

A Wimbledon, quest’anno, non ci sono più giudici di linea. Tutto affidato agli occhi digitali. Alcuni arbitri, licenziati o esclusi, hanno manifestato fuori dal club. E avevano ragione: non si può sostituire la cultura di uno sport con la sua emulazione numerica. Non si può trattare un campo da tennis come un laboratorio. E non si può chiedere ai giocatori – esseri umani, imperfetti, emotivi – di accettare con distacco un verdetto disumano, soprattutto quando è evidentemente sbagliato.

Anastasiya Pavlyuchenkova ha vinto la partita, sì. Ma se l’avesse persa? Se quel game le fosse costato il match? Se il “malfunzionamento” fosse capitato a lei e non a una wild card britannica? E’ qui che la tecnologia diventa ingiusta: quando la sua apparente neutralità cancella la possibilità di giudizio. Quando la precisione si fa dogma, l’equità sparisce.

Certo, nessuno rimpiange gli errori clamorosi del passato, le palle dentro chiamate fuori, i gol fantasmi, i rigori inventati. Ma lo sport ha sempre avuto una sua tolleranza all’errore. Una capacità di assorbire l’imperfezione come parte della narrazione. Ora no. Ora lo spettacolo è interrotto da review, silent check, interruzioni. Il tennis è diventato una serie di fermo immagine. Il calcio una sequenza di attese. Lo spettacolo è rallentato, la fiducia erosa, la tensione alterata.

E allora una domanda dobbiamo farcela: davvero vogliamo uno sport infallibile? Davvero vogliamo togliere l’arbitro dalla partita, il dubbio dall’azione, il rischio dalla decisione? La giustizia non è mai stata perfetta. Ma è stata credibile perché era umana. La tecnologia può aiutare. Ma non può comandare. Quando comanda, smette di servire.

Wimbledon ha avuto il coraggio – o l’azzardo – di eliminare i giudici di linea. Forse è il momento di fare un passo indietro. Di ricordare che l’occhio umano, se allenato, vale quanto un sensore. Che il giudizio di un arbitro, se autorevole, può essere più equo di un software muto. E che lo sport, come la vita, è fatto anche di errori. Non bisogna eliminarli. Bisogna imparare a riconoscerli. E a farsene carico. Anche senza un algoritmo.

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