Il dilemma europeo: baciare Trump o battere un colpo?

Basta inginocchiarsi davanti all’alleato americano. Trasformare la sottomissione strategica in autonomia

Intellettuale 1: Ferrara ha scritto un pezzo necessario. Ironico, come sempre, ma anche crudo e profondo. Il problema non è Trump: è l’Europa. E’ la sua incapacità di assumere un ruolo adulto nel rapporto con un alleato sempre più caotico, imprevedibile, sovrastante. Baciare, baciare, baciare. Ogni volta che Trump esagera, l’Europa risponde con un bisou, come dice Ferrara. Ma è davvero questa la postura che possiamo permetterci?

Intellettuale 2: Il punto è che l’Europa, oggi, non ha una postura. Ha solo reazioni. E sempre tardive, disarticolate, timide. Trump non chiede adesione, chiede sottomissione. Non cerca alleati, cerca conferme narcisistiche. E’ un supermarchese del Grillo – come dice Ferrara – che pretende applausi anche mentre distrugge il palco. Ma se l’Europa vuole contare, non può accontentarsi di fare da claque.

Intellettuale 1: Appunto. E qui veniamo alla domanda centrale: come si fa a dire di no a Trump? Come si fa a “fargli un po’ di male”, senza rompersi le ossa da soli? La chiave, secondo me, è smettere di rispondere con la psicologia. Trump non va interpretato. Va contenuto. Con la forza dei fatti. Con la costruzione di alternative. Con una politica estera e una politica industriale europee, non provinciali.

Intellettuale 2: Ma attenzione. Non si tratta di immaginare un’Europa moralista o anti trumpiana. Sarebbe l’errore opposto. Trump è il sintomo di un’America che ha smesso di credere nella sua missione universale. Noi europei dobbiamo capirlo. Ma non assecondarlo. Dobbiamo costruire una posizione autonoma, non speculare.

Intellettuale 2: Ferrara lo accenna, ma merita sottolinearlo: ci sono leader, come Netanyahu o Xi Jinping, che con Trump riescono a giocare. Non perché lo adulino. Ma perché hanno qualcosa da offrire e qualcosa da tenere per sé. Hanno potere. L’Europa, invece, si presenta ai vertici con mille voci e zero muscoli.

Intellettuale 2: E anche zero idee. Perché se pensassimo davvero a una strategia comune sulla difesa, sull’industria, sulla tecnologia, potremmo andare a Washington con un dossier, non con un bouquet di rassicurazioni. E invece discutiamo ancora se comprare gli F-35 o fare Erasmus. E’ normale che Trump ci rida in faccia.

Intellettuale 1: Prendiamo il dossier Ucraina. Trump minaccia di togliere le armi, poi concede qualcosa, poi rinegozia, poi fa saltare tutto. E noi? Aspettiamo. E intanto diciamo a Zelensky: “Non preoccuparti, abbiamo parlato con Donald, ci ha detto che ci pensa”. Ma come si può fare politica estera sulla base di telefonate non verificabili?

Intellettuale 2: E’ la versione geopolitica dell’impotenza. Il vero nodo è che l’Europa non è ancora passata dall’adolescenza alla maturità. E’ abituata a vivere nella protezione americana. E ora che quell’ombrello si chiude a intermittenza, non sa se costruirsi un tetto o implorare che torni il sole.

Intellettuale 1: E nel frattempo, si illude. Si illude che basti una buona conferenza stampa, una lettera comune sulla competitività, qualche dichiarazione ben calibrata per trasformare il rapporto. Ma con Trump le relazioni non si gestiscono a colpi di comunicati. Si gestiscono con la leva del potere. E noi, al momento, non ce l’abbiamo.

Intellettuale 2: Ma potremmo. E qui la posizione conservatrice dovrebbe essere radicale nel senso più serio: ricostruire l’autorità. Non come imposizione. Ma come credibilità. L’Europa ha bisogno di ridare forza ai propri strumenti. Non basta avere le istituzioni. Bisogna avere la volontà politica.

Intellettuale 1: Per esempio: se davvero la Germania comprerà i Patriot americani per girarli in Ucraina, allora bisogna dirlo chiaramente, rivendicarlo come gesto sovrano, non come contrabbando all’interno della Nato. Se l’Italia sostiene Kyiv, lo faccia con risorse, non con telefonate. Se la Francia vuole contare, smetta di farsi insultare e poi fare spallucce.

Intellettuale 2: Perché è lì che Ferrara colpisce nel segno. Dice che il mondo è fatto di rapporti di forza, e che l’Europa ancora vive come se bastasse un buon prêt-à-porter per essere presi sul serio. Ma la geopolitica non funziona come una sfilata. Funziona come una partita di scacchi. E per giocare, servono pezzi.

Intellettuale 1: Serve anche volontà di giocare. Che è il problema più grosso. Perché in fondo l’Europa ha paura del conflitto. E preferisce essere compatita che sfidata. Ma è una tentazione suicida. Se non sei sfidato, non conti. E se non conti, prima o poi vieni aggirato.

Intellettuale 2: Esattamente. Fare un po’ di male a Trump non significa colpirlo. Significa esistere. Con un’agenda propria. Con alleanze flessibili. Con parole chiare. Significa non baciarlo ogni volta che sbatte la porta. Ma bussare quando serve, e chiudere quando è il momento.

Intellettuale 1: E’ un’arte difficile. Ma necessaria. Perché non siamo più nel mondo post-1989, e nemmeno nel mondo del 2008. Siamo in un’epoca in cui nessuno regala niente. Dove la sovranità si misura in coerenza, non in ideologia.

Intellettuale 2: E se l’Europa vuole davvero essere sovrana, deve smettere di adorare Trump. Ma anche di odiarlo. Deve semplicemente imparare a trattare con lui. Come si fa con ogni potenza che non è amica, né nemica. Ma decisiva.

Intellettuale 1: E per farlo, la politica deve tornare seria. Deve tornare a essere strategia, e non comunicazione. Deve tornare ad avere la pazienza del no, la fermezza del gesto, la lucidità del tempo lungo.

Intellettuale 2: Allora sì, potremo dire: l’Europa esiste. E non perché si è opposta a Trump. Ma perché ha imparato a essere se stessa.

Conclusione: Il problema non è Trump. E’ il vuoto che l’Europa lascia quando si limita a baciarlo. Dire no non è un atto di ribellione. E’ un dovere politico. Non si tratta di ferire l’America. Si tratta di farsi ascoltare. Non si tratta di negare l’alleanza. Ma di riscoprirne la dignità. In un mondo fatto di potenza e debolezza, l’Europa deve decidere se essere partner o oggetto. E iniziare, almeno una volta, a dire: “Grazie, presidente. Ma no”.

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