La telefonata un attimo prima del palco. Tua madre a quest’ora non chiama mai

“Il tempo della perdita” è il racconto di un lutto e della sua elaborazione. Un testo capace di soffermarsi sui dettagli e su quelle incrostazioni della memoria che confondono il presente dandogli un movimento caotico e incomprensibile

A volte basta vedere lo schermo del telefono illuminarsi per capire cosa ha da dirci chi ci sta chiamando, ed è quel che succede a Daniel Schreiber quando, prima di una lettura pubblica nel suo tour per l’Europa, vede sul telefono comparire il numero di sua madre. E’ sera e la madre non lo chiama mai dopo il primo pomeriggio. Daniel sa già cosa deve dirgli. Schreiber sta per salire sul palco ad Heidlberg, non risponde, spegne il telefono e prova a tenere a bada il panico che lo attraverserà tutta la sera: durante la lettura e poi a cena insieme agli organizzatori dell’evento. La notte finalmente, solo nella sua stanza d’albergo, decide già di preparare i bagagli per tornare a casa dai genitori. Solo la mattina Schreiber richiama la madre e come già aveva compreso, viene a sapere che suo padre, da tempo malato, è morto.

Il tempo della perdita” (Add editore, traduzione di Barbara Ivančić) è il racconto di un lutto e della sua elaborazione. Un testo capace di soffermarsi sui dettagli e su quelle incrostazioni della memoria che confondono il presente dandogli un movimento caotico e incomprensibile. Schreiber scrive da Venezia, durante il suo soggiorno presso il Centro tedesco di studi veneziani. Il tempo della perdita è l’occasione per ripercorrere il rapporto con il padre, la sua vita, il suo matrimonio e poi anche la propria stessa vita che pare ora bloccata in quel tempo del lutto in cui tutto arriva come un suono lontano, poco chiaro, difficile da decifrare e che sembra imporre un’obbligata assenza, anche da se stesso. Un ritiro dalla propria vita e dai propri affetti, la necessità è quella di contenere il dolore dando corpo a una barriera che protegga dagli altri, dalle loro parole, ma sopratutto da altre possibili e inevitabili perdite.

Schreiber accompagna il lettore tra ricordi e pensieri sparsi, alla ricerca più che del senso di una perdita, della sua presenza costante nella quotidianità spesa in una stupida frenesia. La perdita non è un fatto legato solo ai lutti e a quelli più vicini, ma è una costante quotidiana. Un elemento doloroso, ma necessario a un’equilibrio esistenziale che chiede di essere rinnovato. La perdita si dichiara nel tempo con un’ostinata assenza di parole, già preannunciata in quella telefonata della madre lasciata cadere: “Le innumerevoli forme rituali che il lutto ha prodotto nella storia dell’umanità sembrano chiamare in causa proprio questa mancanza di parole. In molti casi quei riti assomigliano ingegnosi tentativi di trovarle”.

Le parole vengono sostituite da Daniel Schreiber da una memoria che agisce sui dettagli, come illuminazioni che lo colgono imprevedibilmente nel mezzo di una passeggiata per Venezia. Schreiber rievoca elementi minimi di una storia paterna passata e ora conclusa che piano piano s’incastrano nel suo presente ridefinendolo. Una mutazione silenziosa, una presa di coscienza obbligata. L’esistenza comprende ora inevitabilmente la presenza degli spettri (Derrida) con cui dare corpo a un dialogo che permetta di lasciare andare chi non c’è più: “La nostra integrità psichica si ristabilisce solo nel momento in cui accettiamo che nella vita ci sono cose che non possiamo aggiustare, rivedere, migliorare, recuperare”. Il lutto assume ora la forma di una cura che non lenisce, ma offre una lente per osservare una realtà difficile da accettare.

Il lutto coinvolge parimenti una persona sconvolta dalla sua tragedia individuale così come una comunità immersa in una tragedia collettiva. Non c’è distanza, ma una riconoscibilità reciproca possibile. Un varco che si apre nella nebbia della laguna veneziana, offrendo un paesaggio inaspettato, fatto di forme e di colori mai visti prima.

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