Il mitico musical a Roma diretto da Michele Mariotti. Così Leonard Bernstein compì il miracolo di armonizzare opera e pop, Broadway e bassifondi
Si sarebbe dovuto chiamare “East Side Story”, un musical sugli scontri tra gruppi cattolici ed ebrei. Un’idea mai decollata perché intanto la realtà racconta la violenza di giovani bande latine a Los Angeles. Allora ci si “sposta” nell’Upper West Side di New York, dove immigrati portoricani si scontrano con gang di ragazzi bianchi, americani di seconda generazione. Nasce “West Side Story”. E’ il 1955 quando Leonard Bernstein appunta sul suo diario: “Abbiamo abbandonato l’intera premessa ebreo-cattolica perché non è più fresca, e ci siamo avvicinati a come immagino che debba essere: due bande di ragazzi, una di portoricani sul piede di guerra, l’altra di cosiddetti ‘americani’. Improvvisamente tutto ha preso vita. Sento i ritmi e le pulsazioni, e – sopra di tutto – ne possiedo il senso della forma”.
L’idea originaria di raccontare gli scontri fra ebrei e cattolici, poi abbandonata nel 1955 per riflettere il presente delle gang di immigrati
Uno spettacolo i cui numeri, pur impressionanti, non rendono fino in fondo tutto quello che ha rappresentato nella storia della musica, ma anche del balletto e del teatro. Il 26 settembre 1957 debutta al Winter Garden Theatre con successive 732 repliche. Danton Walker del New York Times lo definisce “un capolavoro di danza, canto, luci, costumi e tecnica scenica tempestiva, serrata ed eccellente sotto ogni aspetto”. John Chapman, del Daily News, scrive: “Il teatro americano ha fatto un audace passo in avanti […]. E’ un nuovo, coraggioso tipo di teatro musicale. In esso, le varie abilità dello show business sono sottoposte a nuove prove, e il risultato è un musical di natura completamente diversa”. Eppure la vera consacrazione arriva dopo il tour sulla West Coast e le 1.040 repliche al Her Majesty’s Theatre di Londra dal 12 dicembre 1958 in avanti. Nel 1961, una versione cinematografica diretta da Jerome Robbins e Robert Wise riceve 11 nomination agli Oscar, vincendone 10, un record per il genere. E poi nel 2009 nuovamente a Broadway, 748 repliche tutte sold out, e nel 2021, per il sessantesimo anniversario del film, un nuovo adattamento diretto da Steven Spielberg. Attualmente i dati riferiscono di 250 produzioni ogni anno negli Stati Uniti, il libretto è stato tradotto in oltre 26 lingue, tra cui cinese, ebraico, olandese e sei traduzioni differenti in spagnolo per adattarsi ai dialetti locali. Un classico capace di colmare il divario tra balletto e prosa, tra opera e musical, tra musica “colta” e popolare, tra tragedia shakespeariana e commedia, tra Broadway e la vera New York.
Il libretto di Laurents e Sondheim unito indissolubilmente alle coreografie di Robbins. I dati oggi riferiscono di 250 produzioni ogni anno negli Usa
Le note di Bernstein e il libretto di Arthur Laurents si uniscono indissolubilmente ai versi di Stephen Sondheim e, soprattutto, alle coreografie di Jerome Robbins. Quattro artisti dalla personalità forte, capaci di stimarsi ma anche di scontrarsi sui metodi di lavoro e sul futuro di un progetto inizialmente abbandonato dalla produttrice Cheryl Crawford e successivamente rilevato da Harold Prince e Robert Griffith. “Si discuteva – ricorda ironicamente Stephen Sondheim – ma non era mai spiacevole. A volte era anche divertente. Abbiamo mantenuto le nostre ostilità al di fuori, giocando agli anagrammi. Lenny non ha mai vinto”. L’obiettivo è elevare il genere del musical condividendo il meglio delle proprie competenze per dar vita a una nuova forma scenica, come spiega Jerome Robbins: “Perché dovremmo lavorare separatamente e in contesti diversi? Perché Lenny dovrebbe comporre un’opera lirica, Arthur scrivere un testo teatrale e io coreografare un balletto? Perché non aspirare invece a unire le nostre autentiche doti in quest’unica creazione rivolta al grande palcoscenico? Ecco il vero spirito dello spettacolo”. In questo modo, non solo rivoluzionano la forma del musical, ma curano con altrettanta attenzione il contenuto, trasformando “West Side Story” in un’opera matura che affronta senza mezzi termini temi profondi e politici: la violenza, l’odio razziale, lo stupro, l’omicidio, aspetti fino ad allora poco presenti sui palcoscenici eppure di strettissima attualità. L’America di quegli anni teme di contaminarsi e parallelamente vede avanzare il maccartismo. Sono tutti fenomeni amplificati dai nuovi mezzi di comunicazione come fumetti, cinema e rock’n’roll, seguiti con interesse dai giovani. “West Side Story” non vuole alimentare paure o frenesia nella gente, ma al contrario ritrarre personaggi complessi, vittime delle circostanze e degli adulti (l’assistente sociale incompetente, il poliziotto minaccioso…), incapaci di offrire un modello positivo di riferimento.
La trama, pur ispirandosi a “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, si attesta su un livello sociale con un risvolto etnico: una storia urbana che fa da sfondo all’amore tra Maria e Tony. La ragazza è sorella di Bernardo, carismatico leader degli Sharks; Tony, invece, è un Jets che lentamente vuole allontanarsi dalla violenza della sua banda. I due giovani si incontrano a una festa e scoppia un amore travolgente che tenterà di arginare la spirale di violenza e sospetto che si amplifica con l’approfondirsi dei loro sentimenti. La morte di Tony interrogherà tutti, portando i gruppi a domandarsi, di fronte al corpo del ragazzo, quanto abbia senso tutto quell’odio.
Soluzioni armoniche e ritmiche di respiro novecentesco. Bernstein pesca nel jazz e nella musica latina. Non manca un velato uso della dodecafonia
La partitura di “West Side Story” è costruita su un duplice impulso: da un lato, l’esigenza drammatica di servire la narrazione e i personaggi; dall’altro, la volontà di esplorare soluzioni armoniche e ritmiche di respiro novecentesco. Il filo rosso di tutto lo spartito è il tritono (il famoso Diabolus in musica) che attraversa anche i momenti più luminosi. Bernstein organizza il materiale tematico secondo una logica di ricorrenza e trasformazione, con linguaggi sonori che pescano nel jazz, nel blues, nella musica latina; non manca persino un velato uso della dodecafonia. Tutto questo dà vita a un suono nuovo ma che rimane familiare all’orecchio dell’ascoltatore.
Permane aperto il dibattito su come il compositore americano si sia confrontato con le nuove tendenze compositive. In “West Side Story” il dialogo tra tonalità e atonalità è molto forte. Con il suono creato in partitura, Bernstein mostra ciò che in seguito avrebbe argomentato nelle sue conferenze: tonalità e atonalità convivono come due poli espressivi complementari, ciascuno con i propri punti di forza comunicativi. “Lenny” compone con il proprio sterminato vocabolario musicale, molto più vasto di quello della maggior parte dei musicisti dell’epoca. Un incubatore di suggestioni e stimoli che gli permettono prolificità e varietà ma soprattutto di riuscire a fondere la scrittura sinfonica con la teatralità del musical dove le sezioni orchestrali, ricche di contrappunti e fluttuazioni dinamiche, non sono mai mero accompagnamento, ma pura narrazione musicale. Nei numeri vocali, ogni personaggio è definito da un leitmotiv armonico e ritmico: Tony è associato a cantilene fluide in tonalità maggiore, spesso con accompagnamento di chitarra e contrabbasso; Maria presenta una linea melodica ascendente e radiosa, intessuta di intervalli di sesta maggiore e settima maggiore. Al contrario, Anita e Bernardo esprimono la loro passione attraverso cromatismi discendenti e ritmi sincopati, influenzati dai motivi portoricani.
Bernstein dimostra qui la sua doppia anima di compositore “colto” e creatore di un linguaggio popolare profondamente innovativo. Un genio – of course – che alcuni colleghi del Novecento hanno trattato con sufficienza, deriso dai “talebani” dell’avanguardia che considerano inferiore la sua produzione. Non si tollera, nel “secolo breve” della sperimentazione, produrre musica scritta per essere semplicemente ascoltata, dal tratto originale e riconoscibile, non priva di arditezze armoniche senza però scadere in estremismi senza senso. Bernstein ancora una volta mostra il suo essere inappuntabile dal punto di vista accademico ma mai manieristico, simbolo di una tradizione musicale che finalmente può confrontarsi con quella europea.
“West Side Story” è il primo titolo in scena alle Terme di Caracalla di Roma per l’omonimo festival. “E’ una rassegna che abbraccia diversi luoghi di Roma – dice Francesco Giambrone, sovrintendente del Teatro dell’Opera – e coinvolge artisti internazionali, eccellenze del musical italiano e tutti gli artisti del nostro teatro”. Una nuova produzione diretta da Michele Mariotti con la regia di Damiano Michieletto; le scene di Paolo Fantin e le coreografie di Sasha Riva e Simone Repele. “Per la prima volta curo la regia di un musical e guido un cast che esce dai riferimenti ‘usuali’ di un teatro d’opera – dice Michieletto – questa produzione poi propone nuove coreografie capaci di valorizzare tutto il corpo di ballo portandolo al limite delle proprie potenzialità. Nel 2022 sempre a Caracalla abbiamo fatto ‘Mass’ di Bernstein. Con ‘West Side Story’ scriviamo la seconda parte di un progetto che potrebbe avere ulteriori sviluppi”.
“Proviamo ancora una volta a credere nei diritti che sono alla base di una democrazia”, dice Damiano Michieletto, regista a Caracalla
In scena, una piscina abbandonata, circondata da rovine dove giace simbolicamente la fiaccola della libertà: “Il sogno americano si è infranto – continua il regista – ma il desiderio è quello di provare ancora una volta a credere nei diritti che sono alla base di una democrazia: l’inclusività, l’opportunità per tutti, l’uguaglianza, la giustizia. Questo simbolo accoglierà la violenza e gli scontri tra le due bande, rimandando alle tensioni che ogni società si trova a dover affrontare, specie quando diventa necessario mantenere integro il senso dei valori democratici”. Un tema attualissimo in un’America dove sembrano essere tornati in voga l’isolazionismo, la paura dell’altro, la chiusura agli stranieri. Storia attuale riconosciuta anche dal direttore Michele Mariotti, anch’egli al debutto con il musical: “Non ho mai lavorato con voci non liriche ma vedo che si sta creando un clima meraviglioso sotto la spinta veemente della musica di Bernstein! L’idea della piscina abbandonata dice del mondo incompleto che viviamo, mentre Maria, l’unica che canta con voce impostata, la persona che tutti noi vorremmo e dovremmo essere. Sul Bernstein compositore, direttore, divulgatore – continua Mariotti – è stato detto tutto. C’è però qualcosa di più grande ed è il Bernstein uomo, essere umano. Solo una persona con un’enorme empatia e sensibilità poteva essere in grado di esprimere quello che lui ha espresso con la musica. Un gigante. Il Bernstein musicista è il riflesso del Bernstein uomo, capace di far vibrare il cuore”.
Diavolo d’un Lenny, ci avevi visto giusto! Ancora una volta è stato più moderno dei moderni. Nella musica, nel lavoro sul testo, nel credere fortemente a un progetto lontano dai canoni del musical di Broadway. E come al solito le carte sono state sparigliate, i confini si sono ridefiniti, i detrattori ammutoliti. Sorge spontanea la domanda: “Ma oggi, più che un musical, che cos’è ‘West Side Story’?”. Provare a definire cosa sia, dove guardi tutta la produzione di Bernstein significa fare un torto al suo autore. Il suo fare musica è avvenimento, puro istante di inspiegabile comprensione. Così nel finale, mentre Tony è agonizzante tra le braccia di Maria, ritornano le parole cantate in precedenza, questa volta come ultimo saluto per un amore che qui, su questa terra, “non è abbastanza”; perché l’amore possa trionfare bisogna andare altrove, stringendosi la mano, “in qualche modo, qualche giorno”.
Questa è arte, qualcosa che “rivitalizza e riadatta il tempo e lo spazio” e “ripaga – come Bernstein annota ancora sul suo diario dopo la prima – per tutta l’agonia, per i continui rinvii e le ri-riscritture. C’è un lavoro lì; e indipendentemente dal fatto che abbia o no successo secondo i criteri di Broadway, ora sono convinto che quello che abbiamo sognato in tutti questi anni è possibile; perché lì è presente una storia tragica, con un motivo profondo come l’amore contro l’odio, con tutti i rischi teatrali di temi come la morte e i contrasti razziali, di interpreti giovani, di musica ‘seria’ e di balletti complicati – e tutto ciò ha messo d’accordo pubblico e critici. Ho riso e pianto come se non l’avessi mai sentito né visto prima. E credo che il motivo per cui è riuscito sia che tutti noi abbiamo veramente collaborato; stavamo scrivendo tutti lo stesso spettacolo. Anche i produttori inseguivano gli stessi obiettivi che noi avevamo in mente. Non si è sentito nemmeno un bisbiglio a proposito d’un happy end. Un fatto raro per Broadway. Sono orgoglioso e onorato di averne fatto parte.”