Benedette vacanze

Quella di Papa Prevost è stata una mossa coraggiosa: si diceva che sarebbe stato difficile tornare indietro, che è sempre più semplice togliere che rimettere, che Francesco aveva purificato la Chiesa da certe sovrastrutture e appendici superflue. Come quella delle vacanze fuori sede, appunto: a che pro?

“Ogni volta che ho la possibilità di recarmi in montagna e di contemplare questi paesaggi, ringrazio Dio per la maestosa bellezza del creato. Lo ringrazio per la sua stessa Bellezza, di cui il cosmo è come un riflesso, capace di affascinare gli uomini e attirarli alla grandezza del Creatore”. (Giovanni Paolo II)



I Papi e le vacanze, quel momento di stacco dalla routine quotidiana che è logorante per tutti, e anche per loro che di preoccupazioni e impegni ne hanno a bizzeffe. Con agende piene dalla mattina alla sera, fra udienze particolari e generali, tra incontri da programmare e discorsi da pronunciare, celebrazioni da presiedere e saluti da fare. Disse Paolo VI, in un Angelus del 1977 che potrebbe essere stato pronunciato in questi giorni di bollettini su cicloni subsahariani e servizi televisivi sui consigli per sopravvivere (dal bere molto al non uscire di casa nelle ore più calde, dal mangiare meloni eccetera): “Ecco il caldo, ecco l’estate, vorremmo aggiungere ecco le vacanze, per augurare che tutti abbiano la possibilità di goderle per un congruo periodo, quello che occorre per una pausa alle occupazioni ordinarie, per un ristoro fisico necessario, anzitutto. Noi lo auguriamo a tutti, salutare e sereno”.


Senza pensare a Giovanni Paolo II in costume pronto a tuffarsi in piscina, che tanto scandalo destò in chi era convinto che il Papa andasse a dormire con la talare e, perché no, sciasse davvero con la sottana come magistralmente rappresentato da Paolo Villaggio in un capitolo della saga fantozziana, il legame di Castel Gandolfo con i Pontefici è qualcosa che si potrebbe definire connaturato alla stessa natura del papato. Esagerazione, forse, ma prima di creare sommovimenti gastrici tra i rigidi canonisti e i seriosi teologi, è utile premettere che qui non ci si occupa di dogmi o di leggi. Semplicemente, di storia e – perché no – di costume e di tradizioni. Un mese fa, quando Leone XIV passò mezza giornata tra le ville da cui si domina il lago, la popolazione locale era in fermento: è tornato il Papa! Il sindaco si mostrò subito in tv, gaudente per il ritorno del vescovo di Roma. Lentamente, si superava uno shock, quello del Pontefice che se n’era andato o meglio, aveva deciso di non mettere piede lì. Troppo principesco il tutto, troppo rinascimentale. Anticaglie, insomma. Benché di certo non fosse stato il primo Papa a decidere di non recarsi ai Castelli per un periodo più o meno lungo di villeggiatura. Per il Palazzo pontificio, la più terribile delle condanne che Francesco avesse potuto comminare: la musealizzazione. Lui che usava l’immagine del museo per indicare tutto quel che non andava bene nella Chiesa: dai tradizionalisti retrò a quelli che anziché darsi da fare con spirito e brio sembravano custodi di un museo. Impegnati, lì, a togliere la polvere che si accumulava. E così Castel Gandolfo, che Benedetto XVI scelse come statio defaticante dopo la rinuncia, si trasformò in un polo per turisti. Non molti, per la verità. E faceva una certa impressione recarsi in quei luoghi come se si visitasse la Versailles di Maria Antonietta: i flabelli qua, la gestatoria là. Uno passava nella camera da letto dei Papi e constatava l’estrema povertà dell’arredamento, magari restandone deluso. In qualcuno, chissà, scattava il paragone con Schönbrunn, a Vienna: almeno là, nelle stanze di Sissi, c’erano travi e anelli per la ginnastica. Qui, al massimo un comodino. E si pensava a questo più che a Pio XII e Paolo VI che lì erano morti, su quel letto, affidandosi a Dio e affidando la Chiesa che tanto avevano amato e servito alla volontà dell’Onnipotente. E poi, certo, il trauma dei cittadini locali era dovuto anche a meri ma non per questo disprezzabili motivi economici: senza il Papa (vivo) a passar lì le vacanze, anche l’afflusso di pellegrini si riduceva fin quasi ad annullarsi. Che boccata d’ossigeno, allora, sapere che Leone XIV tornerà a passeggiare nei giardini delle Ville, a celebrare messa nella parrocchia cittadina (e mica solo una volta!), a recitare l’Angelus domenicale in piazza. Due settimane a luglio, da domani. E poi ad agosto, anche per l’Assunta. L’orologio torna indietro di tredici anni, al 2012.

Quella di Papa Prevost è stata una mossa coraggiosa: si diceva che sarebbe stato difficile tornare indietro, che è sempre più semplice togliere che rimettere, che Francesco aveva purificato la Chiesa da certe sovrastrutture e appendici superflue. Come quella delle vacanze fuori sede, appunto: a che pro? Per anni s’è letto di tutto sul Papa che non faceva vacanza, preferendo solo spostare di un quarto d’ora la sveglia mattutina a Santa Marta: “A casa mia non si sono mai fatte vacanze”, tagliava corto. Non è il primo, il laicissimo Vittorio Feltri ha detto “non mi interessa” rispondendo alla domanda che puntualmente ogni anno gli viene fatta sulla sua meta estiva, pur sapendo che lui al mare non ci ha mai messo piede e non intende muoversi dalla città. Eppure, Francesco che resisteva nella bollente Roma pur allentando i ritmi di lavoro, segnava un cambiamento d’epoca: quando fu annunciato, nel 2013, c’era chi non se ne capacitava. Altri, travolti dalla stucchevole onda populista, vi vedevano in ciò l’immagine del Papa che sta con la gente, che “è-come-noi”. Infatti, non appena dal Vaticano hanno fatto sapere che Leone XIV sarebbe tornato alle Ville, qualcuno sui social s’è indignato, sfogando delusione, ira e soprattutto frustrazione repressa: “Io vivo in trentacinque metri quadrati e non mi posso permettere le ferie”, ha scritto uno commentando la notizia sul Papa in procinto di fare i bagagli. Come se le due cose fossero collegate, come se il Papa dovesse restare a casa per rispetto, comprensione, vicinanza a chi in ferie non ci può andare. Altri, subito, hanno ricordato che il predecessore non aveva tempo di recarsi in villeggiatura. Altri ancora, mischiando geopolitica, idee politiche personali e qualche sentito dire nei talk-show serali, ha concluso che beh, dopotutto è un americano. Con chiaro intento dispregiativo. E pazienza se Giovanni Paolo II, che è pure santo, abbia detto che “il riposo appartiene non soltanto all’ordine umano, ma anche al programma divino della vita umana”.

Castel Gandolfo è, a suo modo, un simbolo e Leone ha avuto coraggio nel riproporlo. Un po’ come la mozzetta rossa che si giurava fosse ormai “musealizzata” in eterno. I Papi in vacanza han fatto la gioia di commercianti locali, politici di paese, preti di parrocchie periferiche e pure giornalisti, al seguito delle scalate montane dei Pontefici, gustando yogurt d’alpeggio e rinfrescandosi il capo nei ruscelli ad alta quota. Wojtyla con il suo bastone da camminatore che, seduto su una roccia, contemplava l’orizzonte. Benedetto XVI che non disdegnava le capatine sulle Dolomiti e in Val d’Aosta. E proprio qui, mentre soggiornava a Les Combes, si ruppe il polso cadendo nella sua stanza durante la notte. Fu operato ad Aosta, “facendo la fila e aspettando il suo turno”, si premurò di far sapere la stampa. Erano momenti che avvicinavano il Papa al popolo e nessuno, in quegli anni, ha mai avuto da ridire sul Pontefice che si ritagliava quindici giorni di stacco dalle faccende romane, allontanandosi dagli spifferi e dai sibili vaticani. Perfino Ignazio di Loyola suggeriva di prendere le distanze, ogni tanto, dalla routine quotidiana, di spostarsi o – per usare un verbo in voga – decentrarsi.

Ma è Castel Gandolfo a rappresentare qualcosa di più rispetto alla baita lignea montana. Quel complesso di palazzi e giardini, boschi e passeggiate, è davvero l’altra Roma. Lo è stata per secoli. Papi che, come s’è detto, lì sono morti, Papi che vi si sono recati come forma di protesta politica: Pio XI scelse di andare alle Ville mentre nella Capitale arrivava Adolf Hitler, segno sommo ed eclatante di disprezzo. Il primo a metterci piede fu Urbano VIII, Maffeo Barberini, quello della disputa con Galileo. Già prima di essere eletto al Soglio aveva messo gli occhi su quel paesello in cima alla rocca: l’aria salubre e la vista spettacolare lo convinsero che lì avrebbe potuto trascorrere momenti di riposo e svago. Divenuto Pontefice e ritenendo che non fosse troppo conveniente essere ospitato nelle case altrui (all’epoca s’usava così), adattò la zona a residenza papale. Ha scritto Emilio Bonomelli ne I Papi in campagna che Urbano VIII “aveva una sua giornata metodica e non gli mancava mai, nelle ore di svago, la compagnia di letterati e di eruditi… Amava soprattutto le passeggiate a piedi che, specie nei primi anni, alternava sovente con lunghe cavalcate nei boschi… Durante le sue villeggiature, perché gli affari di governo non subissero remore, Urbano VIII riceveva, come d’ordinario, ministri e ambasciatori”. Il successore, Innocenzo X Pamphilij non vi mise mai piede, mentre Alessandro VIII era così innamorato del luogo da organizzare per sé e per gli ospiti gite sul lago a bordo d’un brigantino fatto giungere da Roma. E fu proprio lui a chiedere a Bernini di progettare la chiesa parrocchiale. Papa Benedetto XIV, uomo illuminato del Settecento, aveva una concezione molto moderna della vacanza: lì, guardando il lago e respirando forte l’aria pura che giungeva dai boschi di lecci e castagni, “poteva tirar fuori l’anima dal torchio”. La vacanza era sacra e respingeva richieste di cerimonie e udienze: “Non voglio rompimenti di testa. Ce li siropperemo quando saremo a Roma”. Clemente XIV, passato alla storia per la soppressione della Compagnia di Gesù, oggi farebbe inorridire quelli che controllano la mise del Papa, se aderente alla tradizione con pantaloni del giusto colore e talare bene abbottonata. Lui a Castel Gandolfo si metteva, se così si può dire, in abiti casual: “Costume bianco da viaggio con stivali e tricorno bianchi” – anche se l’iconografia ogni tanto gli aggiunge una croce pettorale e colora di rosso il cappello – nota ancora Bonomelli. E andava al galoppo, correva all’impazzata tanto che aiutanti e scorta non riuscivano a stargli dietro. Solo dopo due cadute con conseguente dolorosa ferita a una spalla si convinse – o fu convinto, le fonti divergono – a darsi una calmata e a rinunciare a fare il cavallerizzo.

Gli anni più duri, per la rocca, furono quelli dell’invasione napoleonica prima e di quella sabauda poi. Con i Papi prigionieri in Vaticano, le Ville vissero nell’ombra. Solo dopo la conciliazione, e proprio con Pio XI, si tornò all’antica tradizione: Papa Ratti vi si recava appena poteva, trascorrendovi anche svariati mesi all’anno. Un po’ come Pio XII, che – si calcola – visse a Castel Gandolfo circa un terzo del pontificato. Poi i Papi hanno iniziato a spostarsi in montagna, per trovare ristoro al fresco. Nessuno aveva niente da dire, non c’erano quelli che scatenavano sui social la propria ira contro chi andava in ferie, quasi fosse il peccato più terribile, l’abominio della società moderna. “Nel mondo in cui viviamo – disse Benedetto XVI appena giunto a Les Combes, nel 2005 –, diventa quasi una necessità potersi ritemprare nel corpo e nello spirito, specialmente per chi abita in città, dove le condizioni di vita, spesso frenetiche, lasciano poco spazio al silenzio, alla riflessione e al distensivo contatto con la natura. Le vacanze sono, inoltre, giorni nei quali ci si può dedicare più a lungo alla preghiera, alla lettura e alla meditazione sui significati profondi della vita, nel contesto sereno della propria famiglia e dei propri cari. Il tempo delle vacanze offre opportunità uniche di sosta davanti agli spettacoli suggestivi della natura, meraviglioso ‘libro’ alla portata di tutti, grandi e piccini. A contatto con la natura, la persona ritrova la sua giusta dimensione, si riscopre creatura, piccola ma al tempo stesso unica, ‘capace di Dio’ perché interiormente aperta all’Infinito. Sospinta dalla domanda di senso che le urge nel cuore, essa percepisce nel mondo circostante l’impronta della bontà, della bellezza e della provvidenza divina e quasi naturalmente si apre alla lode e alla preghiera”.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.

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