Come per il Superbonus nell’edilizia, anche il Tax credit ai film ha eliminato i controlli e attirato le truffe

Lascia il direttore generale per il Cinema al ministero della Cultura Nicola Borrelli. A Biagio Mazzotta era andata meglio: dopo la voragine del Superbonus fu incentivato alle dimissioni da Ragioniere generale dello Stato con la presidenza di Fincantieri. Storia di una misura che 10 governi non hanno fermato

Alla fine un capro espiatorio per lo scandalo del Tax credit dopo il “caso Kaufmann” è stato trovato Nicola Borrelli, dimessosi da direttore generale per il Cinema al ministero della Cultura. A lui è andata peggio di Biagio Mazzotta, incentivato alle dimissioni da Ragioniere generale dello Stato con la presidenza di Fincantieri, dopo la voragine del Superbonus. A dimostrazione che in Italia, quando si fa un danno, è meglio farlo enorme. Non è l’unica analogia tra le due misure. Ambedue sono crediti di imposta automatici, molto generosi, che le banche scontano facendoli diventare moneta sonante. Quando è nato, il Tax credit per il cinema rappresentava un avanzamento rispetto al sistema precedente, quando i finanziamenti erano decisi in modo discrezionale da commissioni dove parenti e raccomandati avevano strade facilitate e dove l’amichettismo era un ingrediente fondamentale di sceneggiature e produzioni.


L’automatismo del Tax credit risolve in parte quei problemi, perché elimina la discrezionalità, ma ne fa sorgere di nuovi. Proprio come è successo per il Superbonus: anche in quel caso l’idea era di estendere l’agevolazione a chiunque (anche le seconde case) e senza bisogno di anticipare i soldi (ci avrebbero pensato le banche). Si è abbassata la discrezionalità, ma si è eliminato qualsiasi filtro. Un sistema così semplice e generoso attrae furbetti, approfittatori e talvolta truffatori, come le mosche corrono al miele. Lo abbiamo visto con i bonus edilizi, che hanno prodotto frodi per circa 15 miliardi di euro. Così nel cinema spuntano dal nulla case di produzione, registi improvvisati e le imprese più diverse diventano noleggiatori di attrezzature tecniche. Un’iniezione di denaro del genere, inoltre, fa salire i prezzi dei fattori produttivi se l’offerta non è perfettamente elastica, cosa che è successa sia nel cinema che nell’edilizia.


Infine, c’è il problema delle maglie troppo larghe e dei controlli. E’ una richiesta degli operatori – che infatti generalmente si oppongono a qualsiasi “stretta” – perché così possono rientrare nel sussidio tutti i casi particolari che gli possono capitare, spesso con la buona ragione di non essere troppo prigionieri della burocrazia e delle scartoffie. Ma dopo che gli insider hanno allargato le maglie per non perdere nessuna occasione, nei nuovi spazi si infilano i truffatori e gli improvvisatori (un po’ come le imprese edilizie spuntate fuori dal nulla).

La seconda ragione per le maglie larghe è più specifica e meno facilmente risolvibile. Il cinema non ha una funzione di produzione definita, cioè non esiste una ricetta precisa per fare buoni film: la produzione è piena di competenze tacite che si acquisiscono sul campo. Con i sussidi automatici, la Pubblica amministrazione è messa particolarmente in difficoltà da un settore con queste caratteristiche. Quindi fa delle commissioni dove invita gli addetti ai lavori a spiegargli come distribuire i soldi. E visto che c’è questa asimmetria informativa i componenti delle commissioni gli diranno “dalli a noi e con pochi controlli”.


Nel 2023, secondo la Corte dei Conti, le risorse complessive per il fondo per l’Audiovisivo sono state 746 milioni: grosso modo la metà del fatturato di produttori e distributori. Naturalmente andrebbero aggiunti i contributi regionali e locali, molto difficili da stimare. Al box office si incassano circa 500 milioni ma solo la metà scarsa ritorna ai distributori e ai produttori, e solo un quarto riguarda film italiani. Poi ci sono i diritti televisivi (tv e piattaforme), ma anche le assai larghe valutazioni dell’associazione dei produttori arrivano a 2 miliardi, che però sembrano essere somme di costi di produzione e non ricavi. Se lo stato vuole mantenere un impegno del genere sicuramente deve dotarsi di una competenza settoriale, che sia autonoma dai soggetti controllati e finanziati e deve raccogliere e rendere disponibili molti più dati. Se lo stato fornisce oltre metà delle risorse per produrre un film è legittimato a pretendere dal produttore molti dati, non solo sui costi ma anche sui risultati (vendite, spettatori nei vari canali ed export) e ha l’interesse a rendere disponibili questi dati in vere banche dati settoriali non in applicazioni macchinose e limitate come quelle attuali. E invece, come abbiamo visto anche con il Superbonus, non solo sono scarse le stime ex ante delle misure, ma non ci sono valutazioni di impatto ex post.


Nel 2024 il fondo per l’Audiovisivo è sceso a 696 milioni, con un calo di ben 50 milioni, che considerando lo stato del Tax credit è difficile non definire meritorio. Ma anche questa riduzione del 6,7 per cento – in un sistema dove i casi Kaufmann sono tutt’altro che isolati – ha ricevuto feroci contestazioni e accuse al governo di uccidere il cinema e la cultura italiana (anche nelle proteste attori e produttori non sono diversi da imprese edili e artigiani col Superbonus). In un settore così frastagliato, flessibile e incerto come quello audiovisivo l’intervento pubblico di sostegno andrebbe obbligatoriamente accompagnato, più ancora che in tutti gli altri casi di sussidi, con dichiarazioni preliminari di obiettivi (politici) che si intendono perseguire. Occorre rifuggire dalla logica del “finanziamo il cinema perché è cultura”, ma occorre dire cosa si vuole ottenere.



E’ anche nell’interesse degli operatori economici che l’intervento pubblico sia efficiente, affinché sia duraturo. Perché se un settore fa troppo affidamento su bonus così generosi e distorsivi, quando poi emergono gli scandali e l’insostenibilità finanziaria, gli incentivi che già non avevano razionalità economica perdono anche legittimità politica. E a quel punto, le proteste contro il governo cattivo da parte di chi ha ostacolato ogni riforma non servono più a nulla.

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