Ci si commuove con il nuovo disco di Fabri Fibra, il nostro rapper più cupo e speculativo

Nel suo nuovo album il rapper veterano della scena hip hop italiana s’aggrappa al presente, si distrae un momento a guardare l’America lontana e poi torna a raccontare senza sconti un’esistenza italiana che non sa come liberarsi dall’angoscia

Critica sociale pessimista, con appunti sparsi di un’autobiografia sofferta. Di questo si occupa per la maggior parte del tempo “Mentre Los Angeles brucia”, il nuovo album di Fabri Fibra, l’undicesimo della discografia di questo veterano 48enne che ormai ha un lunghissimo sentiero dietro le spalle, con tanti pezzi, tante parole, tante collaborazioni, prese di posizione, proposte e ripensamenti. Un bel disco, tutto nella norma, pregno dell’abituale rimario caustico e adesso ne parleremo un po’. Ma la cosa strana è un’altra: ovvero che, arrivati quasi alla fine del long playing, ascoltando la traccia numero 13, intitolata “Vivo” e costruita su un campionamento strumentale e vocale dell’omonimo pezzo di Andrea Laszlo De Simone, ci siamo commossi. Non capita spesso, anzi è raro commuoversi sentendo un pezzo rap italiano contemporaneo. Però non è una sorpresa, riflettiamo a posteriori, che sia capitato con un brano e un’intuizione di Fibra, il più cupo e speculativo dei nostri rapper. Lui, in fondo, e a dispetto dei mille featuring nella sua carriera, ha sempre fatto corsa a sé, con prerogative che sono rimaste uniche: per esempio quella di tenere i piedi saldamente per terra, a dispetto delle tentazioni a cui sovente ha ceduto, salvo poi ripensarci e pentirsi, o semplicemente rammaricarsi. Oppure quella di dire sempre la verità, anche quando scomoda o foriera di grane, lasciando da parte i compromessi. O ancora il non dimenticarsi mai chi è stato – e dunque chi è, adesso che è famoso e venerato – quando era uno qualsiasi, neanche troppo favorito nella corsa a qualche forma di legittimazione, comunque ostinato e forte abbastanza da tenere duro e cercare sempre la lucidità per capire, comprendere, fare i conti con gli sforzi da fare, i prezzi da pagare, le rinunce e le linee da non sorpassare.

La sua rilettura di “Vivo” (che già di suo, in versione originale, è un piccolo capolavoro) parla proprio di questo e lo fa con schiettezza e lucidità: “Ho fatto mille cazzate per sentirmi vivo / Mischiavo mille sostanze, bevevo di continuo / Con le ragazze facevo il cretino”, esordisce, congiungendo nostalgie della sua Senigallia adolescenziale (“Mi sono sentito vivo / Quando insieme per il lungomare giravamo su quel motorino / Il tuo ragazzo ti cercava in giro, imbruttito / Quel pomeriggio, sul molo abbiamo fatto il nostro primo spino / Ero così stranito, così invaghito / Che ti ho pure dedicato quel graffito”), con esplicite ammissioni di consapevolezza (“Rappo quando voglio, smetto quando voglio / C’è ancora chi mi segue, ringrazio del supporto / Lo sanno che non crollo”). Il tutto molto old style, perfino “classico”, con un suono in un certo senso di ieri, ma in un pezzo che invece restituisce valore al rap italiano come comprensibile linguaggio del presente, a dispetto della fatica denunciata da Fabri quanto allo stare al passo con i tempi.



Nell’album poi ci sono altre canzoni su cui vale la pena soffermarsi: a cominciare dal brano d’apertura, che ripropone l’esercizio di riuso di un pezzo noto, in questo caso addirittura leggendario come “L’avvelenata” di Francesco Guccini, coinvolgendo il vecchio cantautore nella strofa, per divenire quindi pretesto dell’invettiva di Fibra sul disastro del presente italiano, parlando di musica, di industria discografica, di scena hip hop, di maledette ossessioni social. I suoi pensieri sono acidi e radicali: si sente fortunato a esserne uscito vivo e benestante, ma ciò che vede attorno a sé lo disgusta. E la sua empatia la rivolge ai deboli, con toni crudi e spunti di arguzia, come quando descrive l’Anna e il Marco di “Tutto andrà bene”, una cronaca di ragazzi che non ce la fanno e fatalmente vanno via dal mondo, oppure nella feroce “Mio padre”, in cui rinfaccia al genitore il peso di anni dolorosi nel teatro tragico delle quattro pareti casalinghe, o ancora “Figlio”, lettera che indirizza all’erede mai avuto e offre a uso di quei ragazzini che intravede sotto il suo palco o per le strade delle città e nei quali non smette di rispecchiarsi. Questo e molto altro, con collaborazioni notevoli – da Noyz Narcos a Massimo Pericolo – finisce confezionato sotto il titolo che deve aver accompagnato l’allestimento dell’opera, come una luce sulla collina: Los Angeles bruciava l’anno scorso, per gli incendi spinti dal vento, e Los Angeles brucia in questi giorni, dopo che Donald Trump ha rovesciato il tavolo dell’organizzazione multirazziale californiana. Intanto Fabri s’aggrappa al presente, si distrae un momento a guardare l’America lontana e ad ascoltarne gli echi che arrivano qui, poi torna a raccontare senza sconti un’esistenza italiana che non sa spogliarsi dall’angoscia. Allora è un incolonnarsi di sguardi senza zucchero, dedicati a chi ama, a chi odia, ma soprattutto a coloro che riconosce della sua razza: quelli “contro”, per i quali coerenza, rispetto e desideri sono ingredienti indispensabili per preparare un brodo esistenziale nel quale galleggiare, assaporando uno scontroso joint.

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