Meta è stata condannata dal tribunale di Torino a pagare 126 mila euro per l’utilizzo improprio di foto scattate di Gianni Minischetti. Serve sempre il martello del verdetto per ricordare ai campioni delle big tech che i social non sono zone franche
Finita la pacchia a Menlo Park. Mark Zuckerberg deve aprire il portafoglio. Questa volta, ci si permetta l’ironia, non per attività di normale amministrazione, tecnicamente dette anche “buy-or-bury”, “compra o affossa”, ossia attività di acquisizioni che mirano a incorporare soggetti minacciosi in termini di concorrenza in un unico ecosistema sempre più carnivoro (e dotato di risorse per esserlo) al fine di consolidare la propria posizione dominante – per capirci, Meta Platform Inc. l’avrebbe fatto, prima con Instagram e poi con WhatsApp, e proprio di questo, presso la Corte del Distretto di Columbia, mister Zuck è stato chiamato di recente a difendersi (cosa che poi ha fatto in modo brillante: crescere, naturalmente, non è un reato). No. Qui si parla d’altro. Si parla del vecchio diritto d’autore. Della proprietà intellettuale, questo Stegosauro. Meta è stata condannata dal tribunale di Torino a pagare 126 mila euro (più bazzecole nell’ordine di 25 mila, “spese di lite”) per l’utilizzo improprio di 54 foto scattate da Gianni Minischetti, il fotoreporter che ottenne da Oriana Fallaci un servizio esclusivo, l’ultimo per cui posò la giornalista.
Arcaico finché si vuole, soprattutto in una cultura che fa del flusso, del movimento e della sovrascrivibilità perpetua la propria danzante ragion d’essere, ma le ragioni dell’essere non possono determinare quelle dell’avere. E nemmeno quelle del diffondere, soprattutto se il lavoro lo ha fatto qualcun altro, se questo lavoro ha carattere artistico e professionale, e se di questo stesso lavoro detiene legittimamente il copyright: non diciamo furto, no, appropriazione indebita sì. E anche Zuckerberg in fondo dovrebbe essere contento: Meta non può controllare tutto, certo, ma tutelare il diritto d’autore significa tutelare chi offre alle piattaforme digitali contenuti utili per farle girare, per renderle virali. Fino a oggi, di fronte a casi come questi, il nostro Marcantonio Tech si è difeso invocando la sezione 230, clausola di salvaguardia prevista dalle legge Usa sulle telecomunicazioni, che esenta le piattaforme da responsabilità circa i contenuti generati dagli utenti. Epperò, in questa storia, proprio responsabilità è la parola chiave. Oltre che ripetizione: vige il divieto di ri-utilizzare la roba d’altri, sapendo che è d’altri – scriverlo in timeline cento volte, please.
Singolare che serva il martello di un verdetto per ricordare ai campioni delle Big Tech che i social non sono zone franche, praterie johnfordiane sterminate dove vince chi ha già vinto. Tuttavia trattasi di battaglie sempre necessarie. Non tanto per criminalizzare le sempre più stratificate strutture del sapere, del generare, del diffondere, del digitalizzare, quanto perché società complessa genera fessure, le fessure custodiscono fattispecie labirintiche, ma i fondamentali devono restare i fondamentali. Il messaggio torinese è molto chiaro: l’impero della condivisione – evviva l’impero della condivisione, sia chiaro anche questo – non può essere fondato sul diritto di sfruttare ciò che è altrui, senza che altrui ne ricavi legittimamente, magari in virtù di un ordine di grandezza superiore che viene spesso interpretato, perversamente, come condizione di vantaggio a disposizione del condiviso – una versione su larga scala del “ti va di lavorare per noi gratis? E’ una grande occasione di visibilità”.
Ultima considerazione: nella ridda sfrenata delle ipotesi su ciò che dovrebbe fare la scuola e non fa (spoiler: tutto) forse una formazione giuridica in materia di educazione digitale, su come usare fonti e materiali, su come rispettarne il valore e i conseguenti obblighi, è più urgente perfino dell’educazione alla tanto invocata affettività. Un’educazione, semmai, all’effettività: un’immagine è consistenza (professionale e artistica), il lavoro altrui è consistenza, e la responsabilità personale anche. Non tutto è evaporato, mister Zuck.