Lo straordinario paese-mondo, che ha stabilizzato il Novecento nella libertà civile e nella prosperità economica e tecnologica, e aveva promesso un nuovo secolo americano, ha fatto finire nel disdoro la sua vera forza. Invece di rilanciare il suo eterno dream, l’America dovrebbe smettere di sognare
No kings, niente re. Con questo slogan domani di nuovo gli Stati Uniti vanno in piazza. Il 4 luglio, inteso come celebrazione nazionale della rinascita sognante e libertaria contro l’oscurantismo di Trump e dei suoi accoliti. Ma lo slogan giusto sarebbe: No Kane, nel senso di “Citizen Kane”, il film del 1941 in cui Orson Welles racconta la storia immortale di un principe della manipolazione, Charles Foster Kane, della sua ascesa e caduta, del suo esplosivo narcisismo, del suo esercizio arbitrario e spudorato di un immenso potere fatto di soldi, editoria, manie, amicizie e inimicizie di gran carattere, e appunto sogni in nome di se stesso, sé solo, e degli underprivileged, i forgotten men di un mondo che non esiste più ma esiste sempre, e sempre in America, grazie a Welles e a Trump, The Donald, il Kane che scambia l’America per la famiglia che non ha avuto, che ci dispiace, che non ci commuove, che sconcerta, che mette tutti in pericolo nella pretesa di salvare gli altri per ingrandirsi, per gonfiarsi, in un gioco di trucchi e di luci e di montaggio che è la replica di una grande opera d’arte del passato nella banalità del presente e nella sua portentosa mediocrità. Roba da psicoanalisi letteraria di struggente bellezza, costruita appunto nella tecnica dell’indagine, del ricordo, del sogno espressionista illuminato dalle luci di Gregg Toland, dalla recitazione di Welles e Joseph Cotten, dalla sceneggiatura di Mankiewicz, una parabola drammaturgica unica, il Narciso senza confini elevato e poi distrutto dalla ricerca dell’amore, alla portata di tutti i predestinati.
No Kane. Ma questo vuol dire appunto che l’America dovrebbe, invece di rilanciare il suo eterno dream, e appenderlo magari al wokismo dell’odio per i billionaires e il loro genio rischioso di una abbrutita incandescenza e platealità, smettere di sognare. Stiamo freschi se, come ci dice oggi la storia di Mamdani, il lunatico candidato sindaco dei democratici a New York, passiamo dalla rivolta manipolata dei perdenti, guidati da un ossesso della vittoria che odia i losers pretendendo di rappresentarli e ottenendone il voto popolare, all’intifada globale contro chi vuol farsi re. Il sogno americano sembra sempre la soluzione, la via maestra del riscatto, ma basta rivedere “Citizen Kane” per capire che invece il sogno è o è diventato il problema. Quello straordinario paese-mondo, che ha stabilizzato il Novecento nella libertà civile e nella prosperità economica e tecnologica, e aveva promesso un nuovo secolo americano, ha fatto finire nel disdoro il suo capolavoro realistico, la sua forza vera, così poco estetizzante e frizzante, così capitalisticamente modesta, così fervorosa e religiosa, il dominio delle élite, delle grandi scuole, dei campus ordinati e dei seminari pensosi, della ricerca avanzata e dell’economia plutopopolare del liberalismo, del conformismo famigliare, del sistema o Sistema inteso come un intreccio noioso di procedure e di bilanciamento dei poteri contro il populismo, contro la rabbia incontrollata, contro il risentimento, che nessun Kane può permettersi di violare con la sua grandezza da dandy. Solo con la fine del sogno americano qualcosa può ricominciare e dunque avanti: No Kane.