La Polonia che ripristina i controlli al confine con Germania e Lituania è solo l’ultimo caso. Almeno undici paesi Ue (più la Norvegia) li hanno reintrodotti e li prorogano da tempo. Il peso dell’immigrazione e delle pressioni elettorali delle forze sovraniste. Cronistoria di una schizofrenia istituzionale
Che cosa rimane di Schengen, trent’anni dopo? Oggi l’esperimento sembra in crisi: almeno undici paesi dell’Unione europea (più la Norvegia) hanno reintrodotto controlli alle frontiere interne, ufficialmente per “motivi di sicurezza”, ma nella sostanza per contenere i flussi migratori e per rispondere alle pressioni elettorali interne. La libertà di movimento è diventata negoziabile, con ripercussioni anche sul principio fondativo dell’Unione come spazio senza barriere.
L’ultima a chiudere le porte è la Polonia, dove il premier Donald Tusk ha annunciato ieri il ripristino dei controlli alle frontiere con Germania e Lituania, a partire dal 7 luglio. Il governo di Varsavia parla di “minaccia migratoria” e accusa Berlino di lasciar passare troppi irregolari. È la versione centro-europea della clausola di reciprocità. Quella polacca è infatti la risposta ai controlli (e ai respingimenti) che la Germania ha imposto alle sue frontiere lo scorso autunno: negli ultimi mesi Merz ha aumentato i controlli reintrodotti dal precedente governo.
“Siamo difensori dell’area Schengen e rimaniamo a favore di un’Europa con frontiere aperte e movimenti senza restrizioni. Ma, un sistema di questo tipo richiede lo stesso impegno simmetrico da parte di tutti i paesi vicini”, ha detto Tusk. Ma dietro la decisione di Varsavia c’è di più: la crescita impetuosa dell’opposizione sovranista di Konfederacja, che incalza Tusk su ogni fronte, e che fa della lotta all’immigrazione una piattaforma che raccoglie molti consensi. Nel fine settimana ci sono state proteste sostenute dall’estrema destra in alcuni valichi tra Polonia e Germania. Il risultato? Un progressivo slittamento del baricentro politico, dove anche forze tradizionalmente moderate adottano provvedimenti storicamente associati alla destra populista, per contenere la perdita di consensi sul terreno della migrazione, che si conferma uno dei principali campi di battaglia politica nei paesi europei.
I paesi che hanno reintrodotto controlli alle frontiere
Quello polacco non è un caso isolato. Come detto, il primo giro di vite è stato quello della Germania, dove i flussi migratori hanno toccato livelli record nel 2024 e dove il governo di coalizione guidato dai centristi ha esteso i controlli a quasi tutte le frontiere: con Austria, Polonia, Repubblica Ceca, Svizzera, Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda e Danimarca. Le espulsioni dalla Germania sono aumentate del 45 per cento in pochi mesi e il ministro dell’Interno tedesco ha annunciato nuovi limiti al ricongiungimento familiare. Il cancelliere Friedrich Merz (Cdu) ha dichiarato che “Schengen va salvato, ma non può essere abusato”. Tradotto: vogliamo la cornice europea, ma non a costo di perdere la sicurezza – o le prossime elezioni. Anche qui l’ombra lunga dell’estrema destra, l’AfD, che vola nei sondaggi e detta l’agenda. La Germania – ha ricordato tuttavia il ministro dell’Interno Alexander Dobrindt – sta collaborando con altri paesi dell’Unione per riformare il sistema di asilo del blocco, in modo che i controlli alle frontiere all’interno dell’Ue non siano più necessari.
Ma il fronte è molto più ampio. Il Belgio, il 20 giugno, ha annunciato controlli “mirati” per arginare l’immigrazione irregolare. Nei Paesi Bassi, i controlli sono iniziati già a dicembre 2024 e prolungati più volte: pattuglie mobili lungo le autostrade, verifiche nei treni, nei porti e nei traghetti. Il tutto in un clima politico tesissimo, dove il partito di Geert Wilders – premiato alle ultime elezioni – spinge per un controllo totale dei confini. Di nuovo: se i sovranisti avanzano, anche i moderati iniziano ad alzare muri.
L’elenco si allunga con paesi che da tempo prorogano i controlli interni: Francia (in vista delle Olimpiadi e per contrastare il terrorismo, fino a ottobre prossimo), Austria (controlli ai confini con Ungheria e Slovenia contro i trafficanti lungo la rotta balcanica, sospesi a maggio scorso e poi prorogati fino a novembre 2025), Slovenia, Italia, Danimarca, Svezia, Norvegia. Tutti hanno notificato a Bruxelles la necessità di tenere in piedi, o ripristinare, le barriere. In Italia, i controlli al confine con la Slovenia sono stati prorogati fino al 18 dicembre, formalmente per “gravi minacce all’ordine pubblico”, ma anche qui il contesto migratorio è lo sfondo inevitabile. Persino la Bulgaria, entrata ufficialmente nell’area Schengen solo a gennaio 2025, ha mantenuto i controlli ai confini con la Romania fino al 30 giugno scorso.
L’integrazione come principio, l’eccezione come pratica
Una nota importante: nessuno dei paesi citati vìola Schengen apertamente. Tutti i governi si muovono all’interno delle eccezioni previste dal Codice Frontiere: motivi gravi, durata limitata, notifiche regolari. Ma la somma delle eccezioni produce un risultato sistemico: Schengen è diventato il sistema con più eccezioni d’Europa. Oggi, chi viaggia da un paese all’altro deve portare con sé documenti, aspettarsi controlli casuali e, in alcuni casi, veri e propri fermi. Il passaggio libero non è più la normalità, ma una condizione da verificare volta per volta. Nessun paese membro vuole la fine di Schengen, ma tutti si prendono il diritto di sospenderlo quando conviene. Una schizofrenia istituzionale: l’integrazione come principio, l’eccezione come pratica. A Bruxelles si discute da anni di riformare il sistema per renderlo più resiliente, ma senza risultati concreti. E nel frattempo i cittadini europei scoprono di nuovo – silenziosamente – che le frontiere non sono sparite: si sono solo nascoste. La ragione principale è, appunto, la percezione dell’immigrazione come crisi permanente, come minaccia identitaria e come leva di consenso per le opposizioni sovraniste. Nonostante il numero di ingressi irregolari e le domande di asilo stiano calando, secondo i dati di Frontex ed Eurostat, è lì che si gioca la battaglia politica. E infatti, molti dei controlli non sono efficaci nel fermare davvero i flussi ma servono a mostrare fermezza, a fare vedere che “lo stato c’è”. La polizia al confine diventa un messaggio elettorale, più che una misura operativa. Forse è tempo di ammetterlo: Schengen non è più lo spazio di libertà che prometteva di essere. È un’architettura fragile, vulnerabile ai picchi di crisi e alle oscillazioni della politica interna. Ogni volta che l’Unione sembra in difficoltà, le frontiere riappaiono.