Dal “caso Israele” all’umiltà liberale. La denatalità secondo Paul Morland

Alla larga da schematismi ideologici e soluzioni convenzionali. Per spingere i tassi di fecondità verso l’alto è “imprescindibile un cambiamento dei comportamenti da parte della popolazione, che non è altro una rivoluzione culturale”

Pubblichiamo l’adattamento dalla prefazione al libro di Paul Morland, “Senza futuro. Il malessere demografico che minaccia l’umanità”, da pochi giorni in libreria per Liberilibri (304 pp., 18 euro)


Nel 2095 il mondo è dominato, a tutti i livelli, da una gerontocrazia. Un’élite di “cauti e previdenti” sopravvissuti a ondate pandemiche che hanno causato miliardi di morti. Un gruppo di uomini e donne dotati di volontà, soldi e fortuna necessari per accedere a trattamenti medici in grado di estendere la durata della vita. In questo futuro descritto da Bruce Sterling nel suo romanzo Fuoco sacro (1996), la diciannovenne californiana Brett, durante un soggiorno a Roma, inizia a piangere inconsolabile; realizza infatti che non riuscirà mai a esaudire il suo desiderio di diventare una stilista; è troppo forte e consolidato il potere di mercato di couturier come Giancarlo Vietti che ha dalla sua 112 anni di età, una casa di moda con 75 anni di attività, un enorme capitale finanziario e uno staff sterminato di collaboratori. “Rispetto ai gerontocrati noi siamo dei rifiuti, siamo kitsch, dei piccoli stupidi dilettanti”, si sfoga Brett, “i gerontocrati sono come il ghiaccio su uno stagno. Noi siamo così giù in profondità che non vedremo mai la luce del giorno”. In questa distopia fantascientifica, i mutamenti demografici sconvolgono il tessuto sociale, il complesso medico-industriale domina l’economia del pianeta, per avviare una nuova impresa servono “fondi certificati” ai quali hanno accesso solo i gerontocrati, sistema fiscale e assicurativo sono congegnati per rendere il mondo a misura di anziani. Agli under 40 senza soldi o che rifiutano un’evoluzione da post-umani iper longevi non rimane che animare piccole sacche di resistenza nonviolenta in città come Stoccarda, dove si allestiscono mercati delle pulci improvvisati, e sui muri compaiono graffiti che esaltano il rischio, la novità e il consumismo.



Nella Roma e nell’Europa cyberpunk del 2095, insomma, l’impatto degli scompensi demografici per gli equilibri politici e le conseguenze per il tasso di innovazione della comunità sono al centro dello scontro sociale. Nella Roma e nell’Europa reali del 2025 tali considerazioni sono quasi del tutto assenti o silenziate nel dibattito pubblico, dedito nel migliore dei casi a immaginare i contraccolpi della denatalità per il sistema pensionistico. È una delle amare considerazioni che emerge dalla lettura del libro di Paul Morland, “Senza futuro. Il malessere demografico che minaccia l’umanità” (Liberilibri). Lo studioso inglese non offre soltanto una panoramica globale sullo stato della popolazione, ricca di informazioni statistiche declinate con sapienza divulgativa, attraverso un’abile miscela di dati, analisi, aneddoti e testimonianze dirette. Il suo obiettivo è sostenere un pro-natalismo laicamente e razionalmente argomentato. Così, per esempio, Morland non manca di sottolineare il legame tra denatalità e innovazione, anche prendendo di petto le obiezioni di quegli ambientalisti più estremisti che per salvare l’umanità ne propongono la scomparsa o almeno il dimezzamento. “Come osservò l’economista americano del XIX secolo Henry George, sia agli sparvieri sia agli esseri umani piacciono i polli, tuttavia più sono gli sparvieri e meno saranno i polli, mentre più sono gli esseri umani e più saranno i polli. La creatività umana – sottolinea Morland – è la chiave per risorse aggiuntive, sia che implichi modi più intelligenti per produrre cibo oppure tecniche più efficienti per utilizzare la luce del sole o il vento così da generare energia a buon mercato. Un mondo con più persone, e in particolare con più persone istruite – che è il traguardo che siamo raggiungendo – è un mondo più ricco. […] Il ragionamento non milita a favore di una popolazione che continua a crescere per sempre. Alla fine la popolazione umana è destinata a smettere di crescere e persino a diminuire. La tesi chiave di questo libro è che per il momento non dovrebbe ancora accadere”.



L’autore si tiene alla larga da schematismi ideologici e soluzioni convenzionali. Così, per esempio, riesce a sfatare il luogo comune che vede nell’immigrazione l’eterna panacea del declino demografico. Tante le ragioni, insomma, per auspicare una ripresa delle nascite almeno fino al livello di sostituzione, cioè 2 figli per donna, e un riequilibrio del rapporto tra generazioni. Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere, ma non impossibile. Il libro di Morland, a differenza di altri saggi sulla demografia, è realistico senza mai diventare disperante nei toni. Uno dei capitoli più originali è dedicato al caso di Israele, un’eccezione nel mondo sviluppato visto che “dalla metà degli anni 90 ha iniziato a verificarsi qualcosa di singolare. Il tasso di fecondità israeliano, invece di scendere fino a 2 figli per donna e poi sotto quella soglia, ha cominciato in modo graduale e continuo a crescere, raggiungendo quasi 3 figli per donna nel 2010 e rimanendo da allora a quel livello o molto vicino”. Israele “in qualche modo ha inventato o scoperto l’elisir demografico della vita: come essere un paese pienamente sviluppato senza cacciarsi in una spirale demografica mortale”. La religione abramitica, lo stato di assedio militare in cui il paese si trova fin dalla sua nascita, la tragedia dell’Olocausto e la reazione alla stessa, la fornitura gratuita dei trattamenti di procreazione medicalmente assistita sono tutti fattori importanti ma che non possono spiegare in maniera definitiva l’anomalia israeliana. Per Morland l’elemento decisivo è piuttosto una diffusa cultura pro-natalità che fiorisce nello Stato ebraico. Ennesima dimostrazione che, in questo campo, il legislatore interessato a influenzare le scelte di procreazione dovrebbe coltivare la virtù dell’umiltà. Non esiste bacchetta magica o politica pubblica shock che possa convincere di per sé le persone a fare figli, a maggior ragione – per fortuna – nei regimi liberali come il nostro. “Nella maggior parte dei casi un intervento dello stato è necessario ma non sufficiente”, conclude Morland. Per spingere sensibilmente i tassi di fecondità verso l’alto, “è imprescindibile un cambiamento dei comportamenti da parte della popolazione, che non è altro che una rivoluzione culturale”. Una rivoluzione da attuare a livello individuale, familiare e d’impresa, prim’ancora di aspettarsela servita dal potere esecutivo o legislativo di turno.

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