Come cambia Teheran. Le voci di quattro operai

Nel cuore dimenticato della capitale iraniana, quattro uomini raccontano la loro vita dopo la guerra dei dodici giorni: “Le prenderemo da tutte le parti, da Trump, da Israele e dai bassiji ossessionati dai traditori”

Di tutti i cliché con cui è descritta Teheran, il più abusato è quello che riguarda la sua topografia: il nord ricco e cosmopolita con i quartieri bene abbarbicati alle pendici dei monti Alborz e il sud dimesso e tradizionalista, ricettacolo di ogni povertà. Questo perché dai contadini stritolati dalla “rivoluzione bianca” negli anni ’60, ai ragazzi in cerca di riscatto nel decennio del boom prerivoluzionario, dalle famiglie del Khuzestan in fuga dalle bombe di Saddam, agli odierni, vessatissimi, migranti afghani, è in questa parte di città, e nei quartieri satellite che sono spuntati come funghi alla sua periferia, che approdano gli ultimi. E tuttavia, come spesso accade con gli schematismi, quello che cristallizza lo scatto in bianco e nero di un nord laico e ribelle e di un sud religioso e conservatore aiuta poco a capire la trasformazione non solo politica, ma prima ancora antropologica che ha investito l’Iran negli ultimi anni, perché se è vero che Teheran è il laboratorio politico del paese (e lo è), la porzione di città che è più cambiata, è proprio quella meridionale. Ed è proprio in questo sud paradigmatico per il destino della Repubblica islamica che vivono quattro operai che ai fini di questo racconto chiameremo Mahmoud, Hassan, Reza e Kamran, quattro colleghi che hanno deciso di raccontare al Foglio come hanno vissuto la Guerra dei dodici giorni e come guardano al futuro.

Mahmoud ha sessant’anni e sognerebbe la pensione se non fosse che non crede di arrivarci. “C’è la crisi, c’è l’austerità, c’è l’inflazione, ci sono le sanzioni e ora ci si mette pure la guerra”. Ai tempi della sacra difesa (la guerra Iran-Iraq) era diverso, dice. “Distribuivano coupon per acquistare beni di prima necessità, stabilizzavano i prezzi, razionavano tanto il pane quanto il carburante. Esistevano standard di vita minimi”. Ma quelli secondo Mahmoud erano tempi sì difficili, ma anche più innocenti, tempi in cui le istituzioni rivoluzionarie funzionavano e i pasdaran credevano a quello che dicevano. Di questa guerra, che sottolinea “non è ancora finita”, lo hanno invece colpito due aspetti: da un lato l’ipocrisia dei pasdaran che predicano il sacrificio, ma sono stati colpiti dentro gli attici di Teheran-nord, e dall’altro l’ubiquità della morte persino in una città con un’area metropolitana che arriva a 16 milioni di abitanti. “Ognuno di noi conosce qualcuno che è amico o parente di qualcuno che è morto – concorda Reza, che ha quarant’anni, una moglie e un unico figlio perché non può permettersene altri – e io mi chiedo: dove ci porterà tutto questo odio? Sembrava fuori tempo gridare morte all’America, morte a Israele, e adesso invece…”. Adesso secondo Kamran, che è il più giovane del gruppo, si aprirà un periodo ancora più funesto: “Le prenderemo da tutte le parti, da Trump, da Israele e dai bassiji ossessionati dall’idea di stanare traditori”. Kamran sogna di emigrare in Canada come suo cugino, sogna di portarci le sorelle e la madre; il padre, veterano della guerra Iran-Iraq, è morto a causa dei postumi di un attacco chimico ed è lui a mantenere le donne di famiglia. “E’ tutto cambiato dopo il 2022 (l’anno delle manifestazioni in nome di Mahsa Amini). Non dico di essere diventato un attivista Lgbtq, ma vedo la vita diversamente”.

In quel “diversamente” secondo Hassan c’è una distanza sempre più marcata tra Kamran, che da ragazzino frequentava le colonie estive dei bassij, e il regime. “Ha ragione, sono dei buffoni – dice Hassan – ma d’altra parte cosa vogliamo dire dei finti liberatori?”. In questo gruppo nessuno pensa che arriverà un salvatore. “Non esistono salvatori. Ognuno pensa a sé stesso e in seconda battuta ai suoi”, dice Mahmoud. Secondo lui, proprio per questo motivo, gli iraniani devono rimanere lucidi, per evitare di finire come gli iracheni oppure i siriani. “La verità è che siamo rassegnati – aggiunge Reza – nessuna bomba ci porterà la libertà”. Secondo questo quartetto l’unica alternativa percorribile tra il collasso e la prospettiva di uno stato autoritario in mano ai pasdaran è quella di una transizione morbida affidata a una tipologia d’uomo d’apparato, come l’ex presidente Hassan Rohani. “Lo vedrei bene come Guida Suprema”, dice Mahmoud. “Almeno avremmo un leader che non ha paura di uscire dal bunker – aggiunge Kamran – E poi non dimentichiamoci il proverbio: c’è speranza nella disperazione, perché alla fine della notte scura arriva la luce”. Che parola desueta la speranza, chiosa Hassan: “Si vede che sei giovane Kamran, bisogna essere giovani per parlare di speranza in Iran”.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.