Ininfluente l’endorsement dei divi alle elezioni. Tesa da sempre fra due estremi la rappresentazione del mondo della politica: luogo di corruzione assoluta o di ideali che sfiorano la santità. Molti titoli
Ho cominciato a capire quanto sia ininfluente l’appoggio di Hollywood in politica in occasione del comizio con cui Walter Mondale ha chiuso la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 1984. Guidato da una Glenn Close in versione pasionaria, il gotha hollywoodiano era schierato in prima fila, ed esibiva sollievo, e soprattutto certezza, per l’imminente e inevitabile liberazione da Ronald Reagan. L’entusiasmo si spense quando le urne ne decretarono il successo con un risultato di 49 stati a 1, superando quanto era successo con lo stesso rituale 12 anni prima, quando Richard Nixon sconfisse George McGovern vincendo 48 stati a 2. In proporzioni meno umilianti, è avvenuto qualcosa di simile tra Kamala Harris e Donald Trump, e l’endorsement dei divi si è rivelato un boomerang nelle fasce meno abbienti degli elettori. In questo caso si è aggiunta l’uscita di The Apprentice, che racconta gli anni dell’ascesa del presidente: avrebbe dovuto avere effetti devastanti sulla campagna elettorale, ma non ha spostato un voto, l’elettorato trumpiano lo ha giudicato un’opera faziosa, menzognera e disonesta.
Modesto sul piano artistico, il film è tuttavia interessante per come ne descrive il rapporto con il mentore Roy Cohn, lo spregiudicato avvocato newyorkese che gli ha insegnato tre regole fondamentali: 1) attacca, attacca, attacca; 2) non ammettere niente, nega tutto; 3) afferma sempre di aver vinto e non riconoscere mai la sconfitta. Per comprendere il rapporto tra Hollywood e la politica è bene smentire subito un luogo comune: se è vero che tra i talents c’è una predominanza liberal, non sono mancate le personalità dalle simpatie repubblicane, sia in passato che ai giorni nostri: John Wayne, Robert Taylor, Charlton Heston, Robert Mitchum, Clint Eastwood, Bruce Willis, David Mamet, James Woods, John Milius, Ron Silver, Leo McCarey, Adolphe Menjou, Arnold Schwarzenegger e molti altri. Ancora più numerosa la presenza tra i produttori, a cominciare da Louis B. Mayer sino a Walt Disney, che imponevano la linea editoriale agli studios: la Mgm si è distinta per un approccio escapista specializzandosi nei musical, la Twentieth Century Fox si è collocata politicamente a destra sotto la guida di Spyros Skouras, mentre sul fronte opposto la Warner Bros ha mostrato una costante attenzione al sociale. Ovviamente esistono numerose eccezioni: nella fabbrica dei sogni l’opportunità di un profitto vince sempre sulla difesa di un ideale.
Sin dagli albori del cinema americano, il mondo della politica è raffigurato in maniera estrema: luogo di corruzione assoluta o di ideali che sfiorano la santità, e c’è da chiedersi se siano solo le esigenze drammaturgiche a privare la rappresentazione di quella verità che quasi sempre è avvolta in una coltre grigia. Nell’agiografico Life of Abraham Lincoln, del 1908, il presidente è ritratto mentre lotta per l’eguaglianza, la giustizia e il perdono, e accetta la morte come Cristo, mentre il suo assassino John Wilkes Booth è raffigurato come Giuda. Fu Theodore Roosevelt a intuire il potere del linguaggio delle immagini: Roosevelt leaving the White House lo immortala in modo solenne e affettuosamente paterno pochi anni prima di Nascita di una Nazione, aberrante sul piano ideologico quanto rivoluzionario su quello del linguaggio, nel quale D.W. Griffith sposa la tesi sostenuta tuttora dai suprematisti bianchi: “l’aver portato africani in America ha piantato il primo seme di disunione”.
Quando il cinema tratta la politica, raramente le motivazioni artistiche rappresentano una priorità: quella che Mussolini definiva “l’arma più forte” serve a convincere, attaccare e difendere, come in The Contender di Rod Lurie, voluto da Steven Spielberg per spezzare una lancia a favore di Bill Clinton reduce dallo scandalo Lewinski. O Tredici giorni, di Roger Donaldson, che ripercorre l’escalation che portò il mondo a un passo dal conflitto nucleare all’epoca della Baia dei Porci per celebrare la virtuosa politica liberal di Arthur Schlesinger. A partire dagli anni Settanta sono rarissimi i film che hanno trattato la politica con rispetto, e perfino grandi autori come Woody Allen e Francis Ford Coppola hanno espresso giudizi inficiati da una devastante disillusione. Nel 1971 il primo realizzava un’irresistibile parodia di un rivoluzionario giunto al potere nel Dittatore dello stato libero di Bananas, e due anni dopo il protagonista del Dormiglione racconta che “quando Nixon usciva dalla Casa Bianca gli inservienti controllavano se l’argenteria fosse ancora al suo posto”. In Tutti dicono I love you, girato 23 anni dopo, descrive come iattura la sorte di avere un figlio repubblicano, ma qualcosa è cambiato: Allen è durissimo con gli atteggiamenti politically correct dei progressisti da salotto, come la protagonista Goldie Hawn, una limousine liberal superficiale e ipocrita. Coppola invece non usa l’ironia: in Tucker c’è un memorabile ritratto di un potente uomo politico che minaccia il costruttore di automobili, e nel Padrino parte II Michael Corleone dice a un senatore corrotto: “Siamo due facce della stessa ipocrisia.”
A un facile manicheismo il cinema americano preferisce di norma il racconto di storie e personaggi: il Willie Stark immortalato da Broderick Crawford in Tutti gli uomini del re nel 1949 e da Sean Penn nel 2006 è un ritratto di Huey Long, governatore populista della Louisiana e antesignano di Donald Trump. I due film adattano il classico di Robert Penn Warren, e nel modo in cui è delineato il personaggio rivelano un approccio simile a quello di Gabriel over the White House di Gregory La Cava, mentre è sviluppato in chiave satirica Il Candidato di Michael Ritchie: siamo nel 1972, è il film che sigilla il momento cui la politica comincia a essere raccontata come il luogo in cui gli ideali sono destinati inevitabilmente alla corruzione. È l’anno dello scandalo Watergate: il film che Alan J. Pakula ha tratto da Tutti gli uomini del presidente è impeccabile, ma l’impostazione drammaturgica non consente sfumature di grigio, da un lato il potere torbido e liberticida, dall’altro i giornalisti senza macchia e senza paura. Secondo gli archetipi classici Davide sconfigge Golia, ma è come se del racconto biblico fosse ignorato l’episodio di Uria, e questo, paradossalmente, invece di nobilitare i protagonisti li rende meno umani e quindi meno interessanti. Confrontando poi Bob Woodward e Carl Bernstein con Robert Redford e Dustin Hoffmann risulta evidente che i due divi siano stati scelti per conquistare il pubblico con la rispettiva bellezza e simpatia.
Le raffigurazioni del presidente degli Stati Uniti hanno sfumature diverse: se si eccettua Il presidente, nel quale il democratico Michael Douglas si innamora di una lobbysta e trova grazie a lei la forza per combattere uno spregiudicato rivale repubblicano, le commedie tendono verso il ritratto ironico (Dave), mentre i popcorn movies pretendono che il presidente debba assumere li ruolo di un’icona piena di dignità e carisma, pronta a combattere a viso aperto contro alieni spietati (Independence Day), terroristi feroci (Air Force One) e asteroidi catastrofici (Deep Impact). Se si pensa che negli Stati Uniti il termine alien indica la creatura proveniente da un altro pianeta ma anche l’immigrato, è a dir poco profetica l’intuizione di Steven Spielberg, che in Incontri ravvicinati del terzo tipo rovescia per primo la prospettiva e non li ritrae più come portatori di violenza e distruzione, ma invece di opportunità, persino di redenzione. Bisogna andare indietro nel tempo per trovare ritratti di uomini politici che rifiutano gli stereotipi: sia John Ford che Frank Capra hanno raggiunto risultati straordinari con L’ultimo Urrà e Mr. Smith va a Washington, manifestando un rispetto per il ruolo che prescinde da coloro che ne rivestono i panni. L’ottimismo che ha contraddistinto i film del regista italo-americano esalta non solo l’abnegazione del protagonista (James Stewart), ma anche il lavoro del Congresso, ribadendo che è solo una questione di volontà la possibilità di sconfiggere il cinismo degli interessi attraverso le regole democratiche. Certo, con un impegno che sfiora l’eroismo.
Nell’Ultimo Urrà il sindaco protagonista (Spencer Tracy) ha fatto uso con disinvoltura di mezzi spregiudicati, tuttavia è a lui che vanno tutte le simpatie di John Ford. Provate a mettere a confronto questo approccio con quanto avviene negli anni Settanta: il potere politico è diventato simbolo di corruzione. In Taxi Driver è rappresentato da un gelido senatore, e chi si oppone al male che continua a far marcire la società, è condannato a diventare pazzo secondo la definizione di Chesterton: una persona che ha perso tutto fuorché la ragione. Abbondano i film che esprimono la disillusione del mondo liberal, come Bulworth, nel quale Warren Beatty racconta un senatore democratico in crisi a pochi giorni dall’elezione per la poltrona di governatore della California. Ha dimenticato i propri ideali e annegato in un mare di slogan dal facile appeal la tensione morale che lo aveva portato a lavorare al fianco di Martin Luther King. La crisi porta il personaggio a comportarsi nella maniera più inaccettabile per un politico americano: comincia a dire la verità, e in un incontro con una congregazione nera arriva ad affermare che la sua presenza è motivata solo dal ritorno pubblicitario che ne può ricavare.
Anche in questo caso è interessante un parallelo con Primary Colors, il film che Mike Nichols ha tratto dal libro di Joe Klein. Mettendo in scena la campagna elettorale del presidente Stanton, cristallino ritratto di Bill Clinton, Nichols racconta i compromessi che deve compiere per accedere alla stanza dei bottoni, cogliendone le ambiguità, la disinvolta abilità di comunicatore e la costante mescolanza di idealismo e spregiudicatezza. E’ un ritratto che lancia un’ombra inquietante sull’ex presidente, ed è evidente che il sentimento provato dal regista sia segnato dalla delusione e dalla malinconia. Dieci anni dopo, Nichols ha realizzato La guerra di Charlie Wilson: la disillusione ha lasciato il posto al realismo e il regista sembra accettare gli atteggiamenti spregiudicati dei protagonisti, realmente esistiti, come succede nelle Idi di marzo diretto da un altro liberal attivissimo durante le elezioni presidenziali come George Clooney.
Se dovessi però indicare il film che parla di quanto stiamo vivendo la mia scelta andrebbe certamente su Sesso e potere, di Barry Levinson. Le fake news sono antiche quanto il mondo, ma nessuno al cinema ha saputo raccontarle come David Mamet, autore di un copione geniale: una minorenne denuncia di essere stata molestata dal presidente, e la Casa Bianca crea un diversivo inscenando una fantomatica guerra in Albania, le cui immagini vengono trasmesse su tutti i teleschermi. Non solo: viene inventata anche la storia di un soldato rimasto nelle retrovie e commissionato un inno sullo stile di We Are the World: la canzone scatena l’orgoglio patriottico dell’intero paese su qualcosa di assolutamente inesistente. Per altri versi non è meno sorprendente Nixon di Oliver Stone: spiazzando estimatori e detrattori, che si aspettavano entrambi un film d’assalto, il regista ha realizzato un’opera complessa, contraddittoria e piena di sfumature, nella quale emerge il ritratto di un uomo sul quale è impossibile esprimere un giudizio unilaterale. Sin dalle scene iniziali risulta evidente un’enorme pietà e sincera stima per i successi in politica estera: Nixon appare simile al cineasta, negli improvvisi scatti di umore, l’intelligenza intuitiva e la mescolanza di generosità e brutalità. E’ un film completamente diverso da JFK, folgorante sul piano registico quanto farneticante su quello politico, al punto da attribuire a Lyndon Johnson la responsabilità indiretta dell’omicidio Kennedy.
“Chi era quest’uomo?” si chiede Stone, e in Nixon l’universo non è profondamente nero in una zona e totalmente bianco altrove, ma un insieme di sfumature di grigio. La politica, ci dice il regista, porta inevitabilmente a compromessi imbarazzanti: l’importante è come essi sono gestiti e qual è il fine che ci si pone. Il manicheismo è altrove, nell’illudersi che tali compromessi non esistano, e che la lotta quotidiana contro il male, in tutte le sue ambiguità, non sia parte determinante di ogni attività umana. Ovvio che ciò ha irritato chi avrebbe auspicato un nuovo capitolo di una concezione del mondo popolato unicamente da mostri e santi, come è successo con Hoffa, scritto ancora una volta da David Mamet e diretto da Danny DeVito. In questo notevole ritratto di un uomo probabilmente legato alla mafia, che usava spregiudicatamente le finanze dell’organizzazione sindacale che presiedeva, viene demolita la memoria di due icone quali i Kennedy, ma se in Hoffa il dialogo con Robert Kennedy è risolto in una scena grottesca, Stone realizza nel contrasto tra Tricky Dick e JFK la più bella scena del suo Nixon. In una Casa Bianca deserta e notturna il presidente si imbatte nel quadro di Kennedy poco dopo aver firmato la lettera di dimissioni. Kissinger gli ha appena detto: “La storia di sicuro la tratterà meglio”, e lui ha risposto con lungimiranza: “Questo dipende da chi la scriverà”. Nixon sa di avere un talento e una preparazione politica superiore a Jfk, ma il successo è sempre stato dall’altra parte, e nel quadro del rivale rifulge l’uomo bello, ricco e mitico che lui non è mai stato. Il film ci ha raccontato la sua vita sempre in salita in parallelo a quella dorata di Kennedy e la sua Camelot ed è evidente come soprattutto alla Casa Bianca le due esperienze siano inconciliabili, nella stessa misura in cui la realtà lo è dal sogno. Di fronte al ritratto del rivale, il presidente in disgrazia dice con il tono di una preghiera la più imbarazzante delle verità, che riverbera drammaticamente su quanto sta succedendo oggi in America: “Quando ti guardano, si vedono come vorrebbero essere. Quando guardano me, si vedono come sono”.