Tra appelli e bandiere gli eventi musicali in Italia e non solo sono diventati un grande Gaza Summer Fest. Si salva solo un gigante come Vasco Rossi
I concertoni italiani, ma non solo quelli italiani, sono diventati un grande Gaza Summer Fest. Un entusiastico Festivalbar dell’Impegno. Il “Gaza-Moment” va ormai piazzato in scaletta. Meglio se nel climax della serata. Prima del bis. Quando il pubblico è caldo, sudatissimo, in estasi, pronto per l’indignazione dionisiaca. S’immaginano apprensioni degli agenti e conversazioni nei backstage: “Hai visto Elodie? Hai visto Elisa, Giorgia, Mengoni? E noi che facciamo?”. E allora parte tutto un gioco al rialzo: mettiamo una bandiera più grande. Facciamo uscire un’anguria gonfiabile come i maiali volanti dei Pink Floyd. Ti sparo la scritta GE-NO-CI-DIO in cielo, proiezione laser, caratteri cubitali, come nel libro di Rula Jebreal, così gigantesca che in copertina neanche c’entra. Li facciamo crepare tutti d’invidia.
Gaza è più pop di com’era pop il Vietnam nei Seventies. Più pop del Black Lives Matters nel 2019, che ci regalava i Ferragnez in tuta da combattimento e Myrta Merlino inginocchiata in studio come un Malcom X di La7.
Ci sono al mondo cause inutili, cause perse, cause giuste, cause glamour. Solo alle ultime si concede la ribalta del palcoscenico. Solo le ultime funzionano da ascensori del consenso per artisti, scrittori, cantanti, specie se ignari fino all’altro ieri del problema. Solo con la causa glamour la strategia del dissenso si trasforma in tattica del consenso diffuso: diciamo e facciamo questa cosa così forte e così scomoda tra di noi che siamo già tutti d’accordo. La regola d’oro della causa glamour la conosciamo tutti. Sempre quella: i cattivi devono essere bianchi, occidentali, colonialisti, eccetera, sennò addio. Non funziona. Ci si confonde. L’Ucraina, per esempio, è una causa giusta forse per molti ma per niente glamour. Non lo è mai stata. Per non dire delle altre cinquantacinque guerre in corso o dei massacri dei cristiani: lì sconfiniamo proprio sul cringe. In un attimo sei nel girone dei Povia. Ti molla pure l’agente.
Negli appelli degli artisti, come nelle sbandierate nei concerti, il 7 ottobre è infatti sparito subito, gli ostaggi non se li fila nessuno, Hamas non esiste. L’antisemitismo c’entra poco. Semmai è la complessità che offusca la lucentezza della causa. Che non è la Palestina o la pace, ma un posto in prima fila tra i Giusti, sotto i riflettori. Nessuno peraltro sembra trovare un po’ cringe che proprio i concertoni estivi siano diventati un’euforica piattaforma antisraeliana, col festival di Glastonbury che sfodera bandiere di Hezbollah (a Roma, invece, comparse scritte “daje Iran!” sui muri). Che è un po’ come passare in retromarcia sopra le vittime del massacro al festival Supernova. Si salva, come al solito, solo un gigante come Vasco. Vasco Rossi ci ricorda la differenza tra artisti e aspiranti guru. Vasco non ha bisogno dell’effetto-Gaza per salire nelle quotazioni dell’impegno. Non deve vendere due biglietti in più al prossimo giro. All’Olimpico sventola solo la bandiera della pace. Parla delle guerre “che sono giuste solo per quei farabutti che le scatenano”. Che per chi ha orecchie per sentire è proprio tutta un’altra musica.