Roma non riuscì mai a domare l’impero persiano, un nemico storico. Oggi, come allora, il regime iraniano appare fragile ma nessuno sa cosa potrà sostituirlo, mentre la paura del caos resta l’unico collante
Nel cuore dell’altipiano iranico, a una dozzina di chilometri dalle rovine di Persepoli, si erge una facciata verticale di roccia rossiccia su cui sono scolpiti tre enormi bassorilievi. In quello centrale, due personaggi che indossano abiti romani si sottomettono a una figura a cavallo che indossa la corona dei “re dei re” persiani (la indossò anche l’ultimo scià, Mohammad Reza Pahlavi). Uno viene trattenuto per i polsi, viene preso prigioniero. L’altro si inginocchia, ma non viene maltrattato. L’identificazione dei personaggi è incerta. Potrebbe trattarsi di Shapur I che prende prigioniero l’imperatore Valeriano. L’altro, quello che si inginocchia, potrebbe essere Filippo, detto l’Arabo per le sue origini, anche lui per breve tempo imperatore di Roma. Sconfitto, aveva negoziato con i parti. La scena è potente. Ma ha solo valore simbolico. Impossibile la presenza dei due nella stessa scena. Si tratta evidentemente di una rappresentazione di propaganda. Anche in quei tempi, la narrazione di ciascuna delle parti ha poco a che fare con come si sono svolti i fatti. Allora come oggi, quel che importa non è vincere. E’ poter cantare vittoria. Quel che oggi chiamiamo Iran fu, per secoli, il grande cruccio della potenza di Roma. Non riuscirono mai a venirne a capo, a differenza di quel che avevano fatto con Cartagine. Una grana senza fine, “eterna”, per dirla col termine a cui ha fatto ricorso il ministro degli Esteri di Teheran. Ci avevano provato con ogni mezzo: diplomazia, elargizioni, grandi campagne militari (cosa in cui notoriamente i romani eccellevano), invasioni da terra, guerre per procura, alleandosi con altre potenze locali, e ripetuti tentativi di cambi di regime.
Niente da fare. Crasso e Antonio subirono sconfitte epocali. Augusto era riuscito a raggiungere un’intesa, si era fatto restituire le insegne delle legioni di Crasso massacrate a Carre. La propaganda di Augusto la presentò come una grande vittoria militare. La numismatica lo smentisce. I soldi sono più attendibili della propaganda. In realtà, Roma aveva sborsato forti somme e aveva rinunciato a fare dell’Armenia una provincia romana. Traiano, che aveva conquistato la Dacia, aveva una soluzione diplomatica a portata di mano. Bastava si attenesse al compromesso raggiunto da Augusto e confermato da Nerone. Preferì montare una mega spedizione. La spedizione fallì. Lui ci rimise la vita (non in battaglia ma di malattia). Caracalla dapprima tentò di indebolire i parti facendo guerre in Armenia e in Mesopotamia. Considerava il conflitto strategicamente decisivo, al punto che si era trasferito ad Antiochia. Provò anche la via diplomatica. Mandò ambasciatori al re Artabano, per chiedergli la mano della figlia. Non è chiaro se si trattasse di un tentativo di unire le due maggiori potenze mondiali dell’epoca, o di un espediente. Si diresse, per impalmare la sposa, con un corteo festoso (ma armato), alla capitale di Artabano, Ctesifonte (ora in Iraq, alla frontiera con l’Iran). I romani piombarono a sorpresa sui parti e li massacrarono.
Artabano riparò sulle montagne. Caracalla dichiarò vittoria. Ma fu ucciso da una delle sue guardie (mentre si era appartato per fare i suoi bisogni, a quanto riferisce Dione Cassio). Gli succedette il capo dei suoi pretoriani, Macrino, un altro oriundo dal Nordafrica. Macrino tentò anche lui una soluzione militare. Gli andò male. Accettò di comprare la pace al prezzo (per allora enorme) di 200 milioni di sesterzi. In regalie ai maggiorenti parti. Ma la sua carriera da imperatore durò appena due mesi. Le sue dichiarazioni di vittoria lasciarono indifferente il Senato a Roma. Lo disprezzavano, per le sue origini. A corto di denaro, che aveva profuso in donazioni ai parti, Macrino lesinava sulle paghe dei soldati. Fu ucciso dopo essere stato abbandonato dai suoi uomini. Suo figlio, presunto erede, cercò riparo alla corte persiana. Un imperatore più tardo, Valeriano, avrebbe subito il colmo dell’umiliazione, finendo prigioniero di Shapur nel corso di una battaglia presso Edessa (in alta Mesopotamia, nell’attuale Turchia).
Le fonti romane parlano di lui in termini molto più ingenerosi delle fonti nemiche. “Costui [Valeriano], dopo essere stato catturato dai persiani, non solo perse il potere di cui si era servito in modo eccessivo, ma anche la libertà di cui aveva privato gli altri, e visse nella più ignobile schiavitù. Infatti il re di Persia Shapur, ogni volta che voleva montare sul carro o a cavallo, ordinava al romano di piegarsi e porgere la schiena, dopo aver poggiato il piede sul dorso, gli diceva con un sorriso di biasimo che quella era la realtà, non quella che i romani dipingevano su tavole o su pareti. Così egli visse per un certo periodo in questo stato di sottomissione che ben si meritava, al punto che per i barbari la gloria romana divenne per molto tempo motivo di scherno e di derisione. Alla sua pena si aggiungeva anche il fatto che, pur avendo un figlio imperatore, non trovò nessuno che vendicasse la sua prigionia e la sua durissima schiavitù né venne mai richiesto il suo rilascio. Anzi, dopo aver terminato una vita vergognosa in tale disonore, egli venne scuoiato e la pelle, dopo che ne furono estratte le viscere, venne tinta di rosso per essere posta in un tempio […]”. Così il cristiano Lattanzio ne Le morti dei persecutori (5, 2-6). Polemica tutta interna al campo occidentale, perché il pagano Valeriano aveva perseguitato i cristiani.
Diviso il campo dei romani e anche quello dei persiani. “Cambi di regime” a ripetizione, tribù che scalzano altre (i parti sono una di queste)
Non meno diviso il campo avverso, quello dei persiani. “Cambi di regime” a ripetizione, tribù che scalzano altre conquistando l’impero (i parti sono una di queste), una dinastia che succede all’altra, lotte avvelenate per la successione, figli che uccidono il padre per sostituirsi sul trono, fratelli che ammazzano i fratelli e il resto della famiglia. Per secoli. I despoti si sentono costantemente minacciati dai nemici interni al loro regime più di quanto lo siano dai nemici esterni. Innumerevoli i casi in cui i romani finanziano un “partito”, una cordata di satrapi contro l’altra. O cercano di mettere sul trono un re che ritengono possa essergli più favorevole, spesso un pretendente che è stato loro ostaggio a Roma e pensano si sia “occidentalizzato”. Non gli riesce quasi mai. Ci sono moltissimi studi sull’argomento: Roma contro i parti di Giovanni Brizzi (Carocci 2022), L’imperatore prigioniero. Valeriano, la Persia e la disfatta di Edessa, di Omar Coloru (Laterza 2017), Rome’s Wars in Parthia. Blood in the Sand, di Rose Mary Sheldon, grande studiosa dell’Intelligence, dello spionaggio e controspionaggio nell’antichità romana (Vallentine 2010) e il fondamentale L’image des Parthes dans le monde gréco-romain di Charlotte Lerouge (Steiner 2007). Ma ho trovato particolarmente suggestivi e riepilogativi due saggi disponibili su internet: Imposer la paix par les armes, le cas de l’Iran antique di Benoit Lefebvre (2018) e Fighting a Dying Enemy: Western view on the Struggle between Rome and the Parthians di Leonardo Gregoratti (2018).
Il problema di fondo che emerge è che del nemico i romani non conoscevano abbastanza. I persiani erano da sempre considerati deboli, effeminati, corrotti. Il loro era per antonomasia un impero fallito, moribondo. Così come era superficiale la conoscenza che ne avevano i greci. Si fermarono per lo più all’aneddotica. “Non fecero alcuno sforzo per capire cosa teneva insieme quell’impero al di là della facciata amministrativa”, il modo in cui la mise Arnaldo Momigliano. Si gloriavano di aver sconfitto le invasioni persiane. Ma finì che fu il “Gran re” di Persia a finanziare e pilotare politica e guerre intestine in Grecia. Conclusesi le guerre del Peloponneso, fu lui a dare lavoro agli spartani sconfitti, compresi i “diecimila” di cui ci narra Senofonte. “Ammazzare un nemico già morente” potrebbe essere un titolo che si attaglia ai colpi inferti all’Iran e al suo programma nucleare. Che l’Iran fosse o meno sul punto di farsi la bomba è cosa difficile da appurare. Che agli attacchi Usa e israeliani siano sopravvissuti o meno 400 chili di uranio, più o meno arricchito, caricati all’ultimo istante sui tir dall’impianto sotterraneo di Fordo, non cambia la sostanza. Anche se continuassero a spostarli da un punto all’altro, è presumibile che prima o poi li trovino. Ammesso che ne possano ricavare una decina di bombe, è assai dubbio che le possano trasformare in testate missilistiche.
Non si sa fino a che punto è stato danneggiato il nucleare iraniano. Un rapporto della Defense Intelligence, che fa capo al Pentagono, sostiene che l’avrebbe ritardato di appena 6 mesi. Trump, invece aveva vantato che era stato “totalmente obliterato”. Visto il rapporto che lo contraddiceva, ne ha ritardato la consegna al Congresso. Poi è andato su tutte le furie dicendo che era stato fatto trapelare illecitamente e che conteneva “un mucchio di cazzate” (due cose che si contraddicono). Come per l’antichità, il far scena, propaganda, lo show, dichiarare vittoria, preme più che accertare i fatti. Il punto però è un altro. Il regime iraniano, già moribondo, sembra entrato in fase terminale. Nel giro di poco tempo aveva perso le sue legioni straniere, le milizie per procura che aveva in Siria e in Libano. Una tregua forzata sembra avere per il momento paralizzato la minaccia houthi dallo Yemen. L’ayatollah Khamenei – che sia o no l’obiettivo di un’eliminazione mirata – ha perso la sua catena di comando. Non riescono a quanto pare a comunicare con lui. E’ chiuso nel suo bunker con pochi fedelissimi, e anche di questi non è chiaro quanto possa fidarsi. Ha bandito i cellulari e qualsiasi altra forma di comunicazione elettronica, nel timore che venga individuato il suo rifugio. Per uno che comandava con la parola, rivolgendosi a maree di fedelissimi in adorazione, rilanciate in tutto il mondo dai media, è, se possibile, anche peggio dell’essere stato assassinato. E’ di fatto la fine del carisma.
Quello di Khamenei appare come un regime già morto. Ma nessuno ha un’idea di cosa potrebbe sostituirlo. Il collante della paura del caos
Khomeini negli anni 70 aveva spodestato lo scià grazie alla diffusione di milioni di cassette con i suoi sermoni. Aveva mantenuto il potere con le fatwa, ma soprattutto parlando alle folle. Khamenei è stato zittito. I massimi esponenti della gerarchia militare e politica dei pasdaran sono stati eliminati uno dopo l’altro, e, a ruota, anche alcuni di coloro che erano stati nominati a sostituirli. Erano personalità di assoluta fedeltà ideologica a Khamenei, non solo tecnici. La perdita è più pesante di quella subita dagli impianti nucleari, missilistici e dalle difese anti aeree. L’opinione pubblica è convinta che, se hanno potuto farlo con tanta precisione, hanno avuto un aiuto da parte di gente infiltrata ai massimi livelli, compresi, e forse soprattutto gli organi della sicurezza. Lo si era capito già quando fu ucciso con precisione chirurgica il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, nell’appartamento a Teheran nord dove era ospitato dai guardiani della Rivoluzione. Un regime repressivo può anche mantenersi, per quanto odioso. Per un regime palesemente inefficiente è molto più difficile.
I pasdaran non sono solo i pretoriani del regime. Sono uno stato nello stato. Controllano tutto, le forze aeree e missilistiche e i progetti del nucleare, hanno una propria separata organizzazione d’intelligence. Hanno in pugno e sono temuti dall’esercito regolare. Hanno in mano i gangli dell’economia. Sono una classe a sé: una vera e propria “nuova classe” dominante. Beneficata dal regime, ma odiata da tutti gli altri strati della popolazione. Venivano già percepiti come la testa di ponte, la personificazione della corruzione diffusa che ha rovinato l’Iran. Non solo come braccio armato della repressione. Se ora si aggiunge la percezione che siano soprattutto nelle loro fila, negli apparati di sicurezza, quelli che hanno venduto i leader tanto sistematicamente scovati e uccisi, ne esce distrutta la loro stessa ragione di essere. Si intensifica la caccia agli “agenti” e alle “spie” al soldo dello straniero. Ma del tutto a casaccio. Soprattutto a scapito delle vaste masse di afghani poveri, immigrati clandestini in Iran, additati come quinta colonna del Mossad. E’ come se Hitler, nei giorni finali dell’agonia del Reich, non potesse più fidarsi delle Ss e della Gestapo. Non è chiaro se, e fino a che punto, lo stesso Khamenei possa ormai fidarsi dei propri organi di sicurezza. L’ayatollah supremo avrebbe nominato una terna di successori. Forse è l’unico ordine che è riuscito a diramare davvero dal suo bunker. Ma anche questo è un segno che non si fida degli altri. Soprattutto non si fida degli altri ayatollah nell’Assemblea degli esperti, cui, secondo la Costituzione della Repubblica islamica, spetterebbe la scelta di un nuovo leader supremo.
Il regime non è più solo moribondo. Appare come già morto. Ma un cambio di regime, specie se spinto o addirittura pilotato dall’esterno, è un altro paio di maniche. Non perché sia politicamente scorretto, come ha ammesso Trump nel post sul suo social Truth in cui invocava un “MIGA” (Make Iran Great Again), “visto che l’attuale regime non è in grado di farlo”. Ma perché non ha mai funzionato. Lo scià aveva fatto piazza pulita della politica. La conseguenza fu Khomeini. Non ha funzionato in Iraq, né in Libia. Non ha funzionato quando Netanyahu a Gaza sosteneva Hamas contro Fatah. O quando Israele in Libano sosteneva la Milizia cristiana, finendo col dare spazio a Hezbollah. Nessuno ha un’idea di chi e cosa potrebbe sostituire il regime attuale. Un altro ayatollah? Un golpe dei militari o gestito dagli stessi pasdaran? L’ala riformista? Improbabile. Non si intravvedono personalità o forze politiche all’altezza.
Più facile da dire che da fare. Probabile sia questa la ragione per cui non l’hanno ancora fatto. Il timore (da parte degli americani, e forse anche da parte di Israele) è l’implosione totale. Nessuno vuole un altro Afghanistan. L’Iran è un paese di 90 milioni di abitanti in cui solo metà della popolazione è di madrelingua persiana. Un quarto, compreso lo stesso Khamenei, sono azeri (ovvero turchi), gli altri sono curdi, baluci, arabi, senza contare gli sparuti assiri e zoroastriani, i pochi armeni, i quasi estinti ebrei. In molti non vedono l’ora di regolare i conti. Gli stessi sostenitori del regime si guardano in cagnesco, sospettano gli uni degli altri. Gli unici collanti disponibili, oltre all’islam di marca sciita, restano il nazionalismo, e la paura del caos. “Il sonno della ragione genera mostri”, suonava la didascalia di Goya alla sua serie di incisioni di terribili incubi nel momento più cupo del cambio di regime imposto dalle baionette di Napoleone. Il caos ne potrebbe generare anche di peggiori.