La richiesta del giudice algerino è una condanna a morte per lo scrittore, che ha 75 anni ed è malato di cancro. Il processo surreale e la prigione in mezzo al deserto dove sarà rinchiuso
“Perché sei andato in Israele?”, ha chiesto il giudice algerino a Boualem Sansal, come se si trattasse di un crimine. “Sono uno scrittore ed era una fiera del libro”, ha ribattuto Sansal. Il riferimento è alla sua scandalosa partecipazione nel 2012 al festival della letteratura di Gerusalemme, quando il romanziere divenne “l’amico dei sionisti”, il “traditore” e il “venduto”, perdendo un premio importante degli ambasciatori arabi e guadagnandosi un posto nella lista nera di Hamas. “Perché non scrivi di qualcos’altro?”, ha continuato il giudice, facendo sembrare l’udienza più una barzelletta. “Non ha il diritto di giudicare i miei libri”, la replica dell’autore di “2084” e di “Vivere” (Neri Pozza). Poi la richiesta di condanna che nessuno si aspettava, tranne le autorità algerine: “Dieci anni di carcere”. Ascoltando questa richiesta che significherebbe la sua condanna a morte (Sansal ha 75 anni ed è malato di cancro), lo scrittore ha perso la calma: “State mettendo sotto processo la libertà di espressione e la letteratura”. Il mondo in cui lo scrittore rischia di finire i suoi giorni è di nove metri quadrati (Sansal è in carcere dal 16 novembre, condannato in primo grado a cinque anni di reclusione). Un colpo durissimo per il letterato, per i suoi cari e per i suoi sostenitori. Dieci anni di galera per dieci minuti di processo. Nove metri quadrati è la dimensione della cella di Sansal nel famigerato carcere di Koléa. Un letto, un bagno turco, un lucernario con sbarre che lascia intravedere uno scorcio di cielo e una lampadina sempre accesa.
In quel carcere algerino, i prigionieri non hanno nomi. Sono solo numeri di matricola. Una prigione unica in Algeria, in Africa e forse nel mondo. Ci sono oligarchi, terroristi, oppositori politici, giornalisti, ex emiri di a Qaeda e Boualem Sansal. Costruito da un’azienda cinese a forma di pentagono, Koléa sorge in mezzo al deserto algerino. Qui è passata l’attivista franco-algerina Amira Bouraoui, la cui esfiltrazione dalla Tunisia alla Francia nel febbraio 2023 causò una crisi diplomatica tra Parigi e l’Algeria.
“Quando sono arrivata, la guardia mi ha spogliata e mi ha fatta inginocchiare”, ha raccontato Bouraoui al Point. “Mi ha picchiata alla schiena chiedendomi se avessi della droga nascosta nelle tasche”. L’uniforme verde senape è riservata a coloro che hanno ricevuto una condanna definitiva; il resto dei detenuti indossa abiti civili. Per evitare qualsiasi rischio di impiccagione, cinture e lacci delle scarpe sono vietati. Ogni detenuto riceve due coperte per tutto l’anno, una tazza, un cucchiaio e una gavetta, tutte di plastica. Un prigioniero recalcitrante può essere portato in una cella per essere picchiato con un bastone, ma le sue grida non penetrano le pareti insonorizzate. Un compagno di prigionia di Sansal è Abderrazak el Para, l’emiro islamista che nel 2003 ordinò l’uccisione di 43 soldati algerini e il rapimento di 32 turisti europei nel Sahara. Tutti hanno diritto a quello che viene chiamato “el qola”, un sedativo che aiuta a combattere depressione e tendenze suicide. E questo carcere è un acceleratore spietato dell’invecchiamento. La chiamano “sindrome di Maria Antonietta”, la regina di Francia i cui capelli, secondo la leggenda, diventarono bianchi durante la notte nella Conciergerie prima di salire sul patibolo.
Questo è il buco in cui Sansal rischia di finire i suoi giorni. E dove per certa gauche mullah, per cui lo scrittore “non è un angelo”, può marcire.