Un rapporto pubblicato da Cnn e il New York Times indica che gli attacchi americani avrebbero ritardato il programma nucleare soltanto di pochi mesi. Per Trump si tratta di “fake news”, ma la Repubblica islamica dell’Iran non ha finito di lavorare alla vendetta, nonostante abbia già proclamato la propria vittoria
L’Aia, dalla nostra inviata. L’operazione Am Kelavi (Leone che si erge) è finita dopo dodici giorni. Era pensata da Israele per essere breve, lo è stata, anche grazie all’intervento degli Stati Uniti contro i siti nucleari di Fordo, Natanz e Isfahan. Questo è il momento in cui dal campo di battaglia ci si sposta al tavolo dei negoziati e l’inviato speciale per il medio oriente, mandato da Donald Trump a risolvere ogni crisi e per ora sempre di ritorno senza nulla in mano, durante un’intervista a Fox News ha detto che i colloqui sono “promettenti”. Steve Witkoff usa spesso l’aggettivo “promettente”, quindi è bene soppesare le sue dichiarazioni. C’è un punto che conta molto sul tavolo dei negoziati ed è il peso degli attacchi israelo-americani contro la Repubblica islamica dell’Iran.
La Cnn e il New York Times hanno pubblicato i risultati di un primo rapporto prodotto dalla Defence intelligence agency (Dia) del Pentagono, che indicano che gli attacchi avrebbero ritardato il programma nucleare soltanto di pochi mesi. Il rapporto è stato distribuito a vari membri del Congresso ed è finito sui media, quando ancora avrebbe dovuto essere rivisto e riformulato secondo i dati di altre agenzie di intelligence. La Dia è stata la prima a lavorare ai risultati dell’attacco e non si tratta ancora di nulla di definitivo. Come precisa il Wall Street Journal, spesso questi rapporti vengono rivisti e infine anche contraddetti. Donald Trump all’Aia ha detto che gli israeliani sono andati sul posto, a Fordo, a verificare, ha accusato la Cnn e il New York Times di aver diffuso “fake news”.
Witkoff ha annunciato un’indagine per capire come il rapporto sia finito sui media. Il presidente americano viene accusato di essersi concentrato sulla spettacolarità dell’operazione, senza badare ai veri successi o insuccessi, in Israele prevale la fiducia nei confronti del capo della Casa Bianca, ma c’è anche chi ritiene che abbia cercato di chiudere con troppa fretta l’operazione e che nei negoziati Witkoff sarà poco incisivo. Riguardo ai risultati raggiunti o non raggiunti a Fordo, Tsahal ritiene che ci vorrà ancora un po’ per capire cosa è successo. Per ora, analizzando le immagini, l’esercito israeliano stima che il danno, almeno a Fordo, sia di anni, non certo di mesi. Il rapporto della Dia si concentra sulla distruzione degli impianti e sul risultato dell’attacco americano. A questo, vanno aggiunte le operazioni di Israele, l’eliminazione dei capi militari che si occupavano del programma nucleare clandestino e degli scienziati che ne conoscevano i segreti. La Repubblica islamica dell’Iran, nonostante abbia già proclamato la propria vittoria, non ha finito di lavorare alla vendetta, potrebbero esserci attacchi informatici contro infrastrutture critiche negli Stati Uniti o in Israele, ma la vera vendetta è lunga da preparare e il regime si sta già muovendo per rimettere in piedi i suoi programmi militare e missilistico. Secondo le agenzie di stampa iraniane, ieri il Majlis, il Parlamento di Teheran, ha votato a favore della sospensione di ogni collaborazione con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. I rapporti tra il regime e Rafael Grossi, il segretario dell’agenzia, è compromesso, e Teheran rifiuta ogni tipo di ispezione e presenza delle Nazioni Unite sul suo territorio. L’ultima parola sulla sospensione dei rapporti la avrà il Consiglio supremo per la sicurezza nazionale.
Per Trump ieri all’Aia è stata una giornata celebrativa, il cessate il fuoco ha retto durante la sua permanenza, tutti avevano gli occhi su di lui e volevano la sua attenzione, un suo cenno, una stretta di mano. Tutti volevano parlare di medio oriente, quello che considera il suo grande successo, e per non irritarlo evitavano domande sull’Ucraina. Trump ha avuto il suo podio e al fianco di Mark Rutte, il segretario generale dell’Alleanza atlantica scelto anche perché sapeva come piacere al presidente americano, ha assicurato che l’ultima cosa che vuole fare adesso l’Iran è arricchire qualcosa. E non ha tentennato un attimo quando gli è stato domandato se interverrebbe nuovamente di fronte al segnale di ricostruzione degli impianti nucleari dell’Iran: “Certo”.
Israele ha vinto la guerra dei Dodici giorni, come l’ha chiamata il presidente americano. Non c’è euforia, perché nel frattempo va avanti la guerra a Gaza, ma c’è consapevolezza che le vittorie vanno mantenute nel tempo. Per Michael Oren, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti, “la vittoria va sempre divisa in tre: militare, strategica e diplomatica”. Militarmente, dice l’ambasciatore, Israele ha vinto e lo stesso si può dire per il conflitto a Gaza contro Hamas e in Libano contro Hezbollah. “Anche strategicamente ha vinto, né Hamas, né Hezbollah, né l’Iran costituiscono più una minaccia diretta. L’operazione di Israele è stata di successo, e non importa se anche l’Iran ha detto di aver vinto”. La Repubblica islamica ha raccontato come un suo successo anche la fine della guerra in Libano, quando Tsahal ha eliminato le capacità di combattimento di Hezbollah, il più prezioso degli alleati di Teheran. “Le vittorie militare e strategica poi diventano durature se si aggiunge la terza, quella diplomatica”, conclude Oren. E sarà sul tavolo negoziale che, valutazioni di intelligence o meno, bisognerà impedire che il regime iraniano non ricostruisca le sue capacità.