Le opzioni di Teheran dopo l’attacco americano

Dagli attacchi alle basi americane al blocco dello Stretto di Hormuz. Tutte le possibili reazioni del regime di Khamenei si scontrano con la debolezza accumulata dall’Iran in medio oriente nell’ultimo anno e mezzo

L’Aia, dalla nostra inviata. Prima dell’attacco americano contro i siti nucleari, la Repubblica islamica dell’Iran aveva scelto di non dover decidere. Aveva mosso ogni passo per trascinare i colloqui, per creare negoziati in cui ogni incontro dovesse risolversi con parole di apertura e minacce di chiusura, dispensate in eguale misura. L’operazione israeliana Am Kelavi (“Leone che si erge”) ha iniziato a rompere il finto equilibrio, l’intervento americano ha messo una volta per tutte il regime iraniano di fronte alle decisioni da prendere. Intorno alle due e mezza del mattino, ora di Teheran, gli Stati Uniti hanno iniziato l’operazione “Martello di mezzanotte” per colpire i tre principali impianti in cui il regime ha portato avanti il suo progetto atomico clandestino. Hanno colpito Natanz e Isfahan, già danneggiate dagli israeliani, e bombardato Fordo, il sito costruito in una montagna a 48 chilometri da Qom, una delle città più importanti per il regime, un “Vaticano sciita dell’Iran”, in cui sono passati leader della Repubblica islamica e alleati dell’Iran, come Hassan Nasrallah, capo del gruppo libanese Hezbollah, eliminato lo scorso anno da Israele.

L’operazione americana è stata articolata in più fasi, prima i bombardieri B-2, gli unici in grado di trasportare le bombe di quattordici tonnellate per arrivare nelle profondità di Fordo, sono partiti da una base nello stato americano del Missouri, la maggior parte ha cambiato rotta e soltanto sette hanno continuato a proseguire verso l’Iran, sparendo dai radar e scortati da aerei cisterna per il rifornimento. L’operazione per i piloti dei sette bombardieri è durata trentasette ore, è stata senza precedenti, anche perché le bombe bunker buster (spazza bunker) che trasportavano non erano mai state utilizzate in un campo di battaglia.

Non è più possibile per il regime trascinare il tempo delle scelte, ora è il momento delle decisioni e nessuna, di quelle che potrebbe considerare la Guida suprema Ali Khamenei, è una buona opzione. Il presidente americano Donald Trump, nel discorso tenuto subito dopo il bombardamento americano, ha detto che adesso è il momento della pace. Per la Repubblica islamica è invece arrivato il momento di capire come sopravvivere e potrebbe scegliere la guerra al posto della pace. Ali Khamenei è un ultraottuagenario al potere da più trent’anni: non si resta a capo di un regime tanto a lungo se non si è in grado di fare dei calcoli interni ed esterni e se non si è mossi da un forte desiderio di sopravvivenza attentamente miscelato con una propensione alla sfida. Difficilmente gli uomini del regime si siederanno immediatamente al tavolo dei negoziati e accetteranno di firmare un accordo alle condizioni americane, la domanda a cui dovrebbero rispondere agli iraniani è: se lo avete fatto adesso, perché non avete firmato prima, risparmiandoci una guerra che va avanti da dieci giorni e preservando il programma nucleare?

Il programma nucleare, dopo essere costato circa 500 miliardi di dollari, è stato sicuramente rimandato indietro di decenni, ma non è detto che sia stato distrutto del tutto: analisti ben informati ritengono che il regime abbia messo parte dell’uranio arricchito in un posto sicuro, in modo da poterlo usare anche in ambito negoziale e poter mostrare una vittoria a livello interno. Le possibili reazioni di Teheran vagano per strade già prese in considerazione: attacchi alle basi americani in medio oriente, attacchi contro ambasciate americane, missili contro Israele, infine blocco dello Stretto di Hormuz che può paralizzare il traffico commerciale nel Golfo Persico.

Ognuna di queste opzioni si scontra con la debolezza accumulata dall’Iran in medio oriente nell’ultimo anno e mezzo con la scomparsa dei suoi alleati regionali, soprattutto il più prezioso dei gruppi armati, cresciuto e finanziato con pazienza: Hezbollah dal Libano è stato decimato da Israele, subisce una forte pressione anche dal governo libanese per non intervenire. L’Iran ha perso la Siria dopo che il dittatore Bashar el Assad è stato cacciato lo scorso dicembre e rimpiazzato da Mohammad al Sharaa, combattente dal passato jihadista, desideroso di ripulirsi la reputazione anche attraverso la costruzione di un nuovo rapporto con Israele e molto vicino all’Arabia saudita.

L’Iran è alla ricerca anche dei suoi alleati internazionali, lunedì il ministro degli Esteri Abbas Araghchi incontra il presidente russo Vladimir Putin. Esiste un accordo di assistenza tra Russia e Iran, finora Mosca non è corsa in aiuto di Teheran: è il limite delle alleanze di convenienza, neppure il Cremlino vuole una Repubblica islamica con un programma atomico militare sviluppato, è questione di ruoli e Mosca non intende perdere il suo ruolo di primo piano di potenza nucleare.

Israele aveva definito la distruzione di Fordo l’obiettivo finale della sua campagna, domenica Tsahal ha continuato a colpire arsenali e lanciatori di missili nel territorio iraniano per limitare le capacità di bombardamento della Repubblica islamica, che come prima ritorsione ha scelto i missili contro le città israeliane.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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