Calcio per tutti? Non quello dei 10-0. Ecco cosa succede quando allarghi troppo le competizioni

Dalla Champions al Mondiale per club, fino alla prossima Coppa del mondo. Aumentare il numero delle squadre partecipanti aumentare non permette la selezione, la azzera

C’è un gigantesco equivoco, forse, nella mente di chi progetta il pallone. Lo genera il fatto che siamo in una strana epoca, quella post Superlega senza che sia mai esistita una Superlega. Il tentativo clandestino di dodici squadre, ormai di quattro anni fa, di autoproclamarsi élite e farsi il proprio campionato ha comunque segnato uno spartiacque: la vittoria dei contrari al progetto è arrivata in nome della competitività, alla quale nemmeno il calcio da tempo diventato industria può rinunciare. È l’ultimo pezzo di poesia rimasto, l’ultima possibilità che esista un Davide in grado di battere Golia. Al tempo stesso, però, è apparso chiaro che le società più grandi, quasi sempre grandi anche nel buco di bilancio, hanno bisogno di soldi e sono disposte anche a violare i principi più elementari dello sport per ottenerli. Così, per tenere tutto insieme, chi governa il calcio ha pensato: facciamo giocare di più le squadre, inventiamo manifestazioni, così le piccole possono sfidare le grandi e il moltiplicarsi delle partite aumenta la possibilità di racimolare denaro da distribuire.

È sfuggito un concetto, ma probabilmente non interessava: allargare la Champions (da 32 a 36 squadre), rendere il Mondiale per Club così ampio (32 formazioni), aumentare la base della prossima Coppa del Mondo (da 32 a 48, ma nel 2030 potrebbe essere 64) non permette la selezione, la azzera. Davide non arriva a sfidare Golia perché, pur partendo da una situazione di svantaggio, se l’è guadagnato, ma perché l’hanno paracadutato. Non ha trovato il modo per passare dalla stretta via che porta a pochi passi dalla grandezza, hanno allargato la via. Così si gioca di più, si incassa di più, ma non sono migliorate le partite, in alcuni casi inutile orpello: servono novanta minuti da offrire alle tv o a un pubblico di svogliati tifosi americani o sauditi, magari uno spettacolo nell’intervallo, qualche evento collaterale, ma il calcio è lì in un angolino, se ancora lo si considera sport.

Solo quest’anno il Bayern ha vinto 9-2 in Champions League contro la Dinamo Zagabria, non una frequentatrice assidua della manifestazione, e nella giornata inaugurale della Coppa del Mondo per Club ha battuto 10-0 i dilettanti (nel vero senso della parola: alcuni giocatori mancavano perché non potevano mettersi in ferie dal proprio lavoro) dell’Auckland City, una squadra nata ventuno anni fa e già dieci volte campione in Nuova Zelanda. Si dirà: l’Auckland vanta il record di partecipazioni alla manifestazione voluta da Infantino, ma quando era un torneo mini, dimenticato da stampa e ogni tipo di media, senza l’ambizione di diventare un’attrazione internazionale con un miliardo di montepremi per le squadre che ne prendono parte.

Serve un calcio così? Solo sostenerlo porta a un’altra idea di sport: intrattenimento, come il circo, con il Bayern nel ruolo di lanciatore di coltelli e un avversario bersaglio. Con un ulteriore danno collaterale: l’Auckland, da questo torneo figlio del gigantismo del nuovo pallone, guadagnerà 3,3 milioni di euro; la sua rosa, secondo Transfermarkt, vale 4,5 milioni. Il rapporto tra le due cose è incredibile, e per una squadra che ha vinto le ultime quattro edizioni della Champions di Oceania vuol dire finire nella condizione di perdere 10-0 di qua e vincere 10-0 di là. Non era questo il concetto di calcio di tutti.

Di più su questi argomenti:

Leave a comment

Your email address will not be published.