Un cerchio magico per proteggere Gattuso e l’Italia

I ragazzi del 2006 attorno al ct che racconta la sua evoluzione. Anche Luis Enrique apprezza il suo gioco

In sintesi, caro Rino, saranno veramente ct… dove ct, in questo caso, non sta per commissario tecnico. Lino Banfi, che l’arte di sdrammatizzare ha usato in abbondanza nei film e nella vita, li chiamerebbe volatili per diabetici. Avete capito. E’ stato Marcello Lippi, una delle prime persone che ha sentito al telefono dopo la nomina, a metterlo bonariamente in guardia, con l’affetto paterno che mai ha lesinato ad uno dei suoi ragazzi, forse il più prediletto. I ragazzi del 2006. “Eravamo trentaquattro, quelli del…”. Gattuso ct, Buffon capodelegazione, Bonucci e Barzagli collaboratori tecnici, Zambrotta e Perrotta insieme a Prandelli. Si prova a ricreare quella bella atmosfera.

Rino Gattuso, era un ragazzo come noi. Vent’anni dopo, del ragazzo di Calabria emigrato in Scozia per emanciparsi e darsi una possibilità, ha conservato l’umiltà (“Certo non penso di alzare la Coppa come fece Marcello…”); lo spirito, la garra di impronta uruguaiana che a Eduardo Galeano, con cui il nostro invero condivide l’amore per il calcio e la capacità di disgustarsi per ogni ingiustizia e prepotenza, non piaceva tanto (“Ma io, consentitemi, oggi sono altro, per dire un Gattuso tra i titolari non lo metterei”); quella cultura del lavoro tipica della provincia del Meridione d’Italia che molto spesso è l’unica arma che le persone oneste possono opporre all’arretratezza e alle scorciatoie offerte dalla criminalità (“Di cose facili, nella vita, me ne sono capitate poche. Ai giocatori, semplicemente, chiederò di andare a mille all’ora”); e infine, il coraggio che, com’è noto a chiunque abbia letto il Manzoni, è innato, non puoi dartelo: “La parola paura non deve esistere”.

Tutto si tiene, nel pantheon di Rino Gattuso. La famiglia. La sua (“Percepire che i miei genitori, che ormai hanno una certa età, si siano emozionati di nuovo, è stato bellissimo”) e quella che, con alterne fortune, ha provato a creare in tutti gli spogliatoi che ha frequentato, da giocatore e, ancor più, da allenatore – è noto ai più che Gattuso abbia avuto la sfortuna (o fortuna, dipende dai punti di vista) di imbattersi più di una volta in situazioni societarie perigliose, e ogni volta ci ha messo letteralmente del suo, dando soldi a giocatori che non percepivano lo stipendio o ad autisti che mettessero la benzina nel pullman per portare la squadra in trasferta. La schiettezza, per non dire certa ruvidezza, che è corazza, spesso, indosso a chi conosce presto le asprezze dell’emigrazione. “La regola numero uno? Dirsi le cose in faccia”, e a proposito, tanti saluti ad Acerbi (“Ho chiamato trentacinque giocatori, anche Chiesa, ma lui no”). La Calabria. Amata e lasciata. Luogo natio a cui ciclicamente torniamo – “per un attimo fui nel mio villaggio, ne la mia casa. Nulla era mutato”, scrisse il Pascoli -, ma anche lontano, sempre più lontano. “Sono partito a dodici anni, ho girato l’Italia, l’Europa, quasi quasi mi sento più cittadino del mondo che italiano, come fanno ancora oggi a definirmi il tecnico calabrese?”. La Calabria. Terra di sentimenti forti e contrapposti. Di miele e neve, come nella canzone di Brunori Sas, come nella scirubetta, dolce antico che risale alla Magna Grecia. La Calabria a cui mai si nega – “Ci penso quando sento l’inno” – ma da cui presto è partito, emancipandosene, progressivamente, instancabilmente, ed evolvendo, come uomo e come professionista dell’arte pedatoria, in qualcosa di diverso, quasi, sul finale, divenendone vittima, di quell’immagine stereotipata del ragazzo di Calabria.

E il calcio, ovviamente. Il suo calcio, che è la cosa della vita di Gennaro Rino Gattuso fu Ringhio, che più si è evoluta. “Se uno nasce quadrato non può morire tondo”, ci credeva così tanto che finì per scriverci un libro, qualche anno fa: “… la storia di un uomo che entrerebbe in tackle perfino sul suo avversario di calciobalilla”, recitava la sinossi (che orrore). E invece, il calcio di Rino è cambiato, eccome. Il primo a raccontarlo al mondo fu Luis Enrique, come al solito con la preveggenza di chi è oltre, tre anni fa, mentre sedeva sulla panchina della Spagna. “Mi piace il Valencia di Gattuso – disse senza mezzi termini -: ha cambiato la mentalità dei suoi giocatori, adoro l’energia che trasmette in campo. Uno lo può considerare difensivo solo perché è italiano, ma non è così, anzi è tutto il contrario. La sua è la squadra che preferisco guardare fra le venti della Liga spagnola, per come costruisce ed aggredisce il gioco”.

Ma il primo ad accorgersene fu Gigi Buffon, che ora gli siede accanto da capodelegazione della Nazionale, ma ha fatto in tempo ad affrontarlo da avversario. “Ed ogni volta era un problema – ha raccontato –, perché erano partite difficili. Si percepiva subito che dietro c’era un’identità precisa, razionalità, lavoro. E quando sei in campo lo capisci immediatamente se una squadra ha la mano di un allenatore capace. Con il Milan, con il Napoli… ogni volta ritrovavo quella sensazione. Rino ha sicuramente un tratto distintivo forte, perché è nella sua natura essere generoso, determinato, combattivo. Nessuno glielo toglierà mai, e nessuno deve negarglielo. Però allena da dodici anni, ha fatto esperienze in tutta Europa, e questo significa che ha avuto e sentito il desiderio di migliorarsi, di evolversi. Quando mettiamo un’etichetta a qualcuno, spesso lo facciamo per evitare di approfondire. L’etichetta ci consente di relegarlo in un angolo, e per noi rimarrà sempre quello. Ma chi lavora nel calcio, chi deve prendere decisioni importanti, deve andare oltre”.

Oltre l’orizzonte, per tutti gli italiani, c’è il Mondiale del prossimo anno. Dio non voglia che il Paese non abbia notti magiche da vivere per la terza edizione consecutiva. “Non ci voglio nemmeno pensare. Abbiamo giocatori forti, entrerò nelle loro teste, ne tirerò fuori il meglio. E che Dio mi dia la forza”. Amen. O come direbbe Lippi, ct…

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