L’operazione di Israele per eliminare gli scienziati di Teheran

Il regime aveva costruito una rete di fisici, ingegneri e chimici pensata per rinnovarsi in caso di attacco. Come ha fatto Israele a mettere fine al progetto

C’è un dettaglio che fa capire come, anche per gli israeliani, la missione contro la Repubblica islamica dell’Iran, così come è stata realizzata nelle prime ore dell’attacco, avesse una componente di incredulità e fosse percepita alla stregua della sceneggiatura di un film di fantascienza. Am Kelavi (“Leone che si erge”, “Rising lion” in inglese) è la denominazione dell’operazione, presa da un versetto della Bibbia in cui l’indovino Balaam paragona la forza del popolo di Israele a quella di un leone. Esiste però un’operazione nell’operazione e soltanto ieri all’emittente Keshet 12 un ufficiale dell’intelligence ha rivelato che il piano per eliminare gli scienziati che conoscevano tutti i segreti del programma nucleare dell’Iran aveva un nome tutto suo, originale e fantastico: “operazione Narnia”.



E’ qui l’elemento di stupore, di fantasia, quasi che anche il Mossad vedesse nel piano un’idea partorita da un mondo parallelo. Per arrivare agli scienziati gli israeliani hanno usato delle armi nuove, hanno studiato le basi in cui operavano, hanno mappato le loro case e infine sono riusciti a spuntare dalla lista i nomi dei dieci uomini più importanti che in questi anni avevano preso parte al programma, erano stati impiegati dal regime per arricchire l’uranio e studiare il modo di arrivare alla Bomba e, negli ultimi tempi, secondo l’intelligence israeliana, lavoravano anche ad accelerare la sua realizzazione. In tutto sono dieci gli scienziati uccisi nell’operazione Narnia, alcuni di loro avevano preso il posto di Mohsen Fakhrizadeh, che per molto tempo ha aiutato il programma atomico iraniano clandestino a fare grandi passi avanti, ne è stato la “forza trainante” come scrisse una volta il New York Times, ed è morto nel 2020 mentre era in auto diretto alla sua casa di Absard. Fakhrizadeh era l’uomo e anche il volto del programma nucleare, conosceva tutto, lo considerava suo e quando venne ucciso con i colpi di una mitragliatrice comandata da remoto, il regime faticò a trovare chi lo sostituisse. Ci vollero più fisici nucleari per fare un Fakhrizadeh. La sua morte cambiò anche il concetto di sicurezza degli scienziati, che però si sentivano al sicuro dentro le loro case. Cambiò anche il rapporto del regime con loro: non volevano più un Fakhrizadeh, ma una corte meno visibile, costituita da più scienziati che non potessero diventare il volto del programma.



Sono pochi i dettagli che stanno uscendo, ma Keshet 12 è stata in grado di raccontare che i funzionari dell’intelligence israeliana avevano diviso gli scienziati in quattro livelli di priorità: al livello più alto sono stati posizionati gli scienziati più difficili da sostituire. Tutti sono stati uccisi simultaneamente, nelle loro case. Il presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, mentre i segnali di un attacco imminente da parte di Israele si stavano accumulando, aveva detto che anche se fossero stati distrutti gli impianti per l’arricchimento dell’uranio, anche se fossero stati distrutti i centri dell’energia, a Teheran sarebbe sempre rimasto il più prezioso dei componenti del progetto sul nucleare: il sapere, la competenza degli uomini che ci lavorano. Le parole di Pezeshkian sono sembrate una premonizione per l’intelligence israeliana che già sapeva che da lì a qualche ora avrebbe iniziato il suo piano proprio per colpire non soltanto gli impianti, ma anche le menti. Gli scienziati che seguivano il programma clandestino sono stati colpiti nei primi istanti dell’operazione, segno del fatto che Israele sapeva perfettamente che il capitale umano è fondamentale per mandare avanti il programma nucleare di Teheran e adesso, ricostruire la rete di ingegneri, fisici e chimici sarà un compito quasi più arduo che rimettere in sesto Natanz.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull’Unione europea, scritto su carta e “a voce”. E’ autrice del podcast “Diventare Zelensky”. In libreria con “La cortina di vetro” (Mondadori)

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