Il direttore principale dei Berliner Philharmoniker ha una tecnica prodigiosa che parte dalla padronanza assoluta del testo e si esprime nella precisione del gesto e nel rapporto simbiotico con gli orchestrali, un rapporto prodigo di sguardi e indicazioni. L’ultimo concerto della stagione, tra Roma e Milano
Capita a volte di registrare l’entusiasmo proprio e del pubblico al termine di un concerto per un’esecuzione particolarmente brillante, per la prova del divo di turno, per le attese con cui ci siamo seduti in sala ripagate con gli interessi dall’ascolto. Più raramente capita che sul rumore di fondo degli applausi e di quell’entusiasmo prevalga una gioia interiore che vorrebbe il silenzio, accompagnata dalla sensazione di aver partecipato a qualcosa di unico che si percepisce anche là, sul palcoscenico, nei sorrisi e nella commozione in orchestra. E’ quello che è successo lo scorso fine settimana al Parco della musica a Roma e domenica sera al Teatro alla Scala, a Milano. Ultimo concerto della stagione, Kirill Petrenko, direttore principale dei Berliner Philharmoniker, sul podio dell’Orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.
Già il programma era bellissimo. L’Ouverture del Manfred di Schumann: nella concisione della forma, nell’ossessività espressiva, nelle ombre e nelle fulminee accensioni, Romantik purissima. La Sinfonia concertante per flauto, oboe, fagotto e corno di Mozart: trasparenza e gioco cartesiano delle parti, rococò e classicismo, un’arcadia venata di malinconia e gioia vera. La Prima Sinfonia di Brahms: grandiosità e intimismo, la scommessa sulla possibilità di scrivere una sinfonia dopo Beethoven finalmente vinta, sia pure con ancora “qualcosa di aspro” (copyright Clara Schumann). E tutto in qualche modo legato, dalle parentele armoniche (Schumann e Mozart nello stesso Mi bemolle maggiore, Brahms nella relativa minore di quella tonalità) alle affinità elettive: lo sfrenato romanticismo schumanniano che si ritrova addomesticato sotto l’abito brahmsiano più formale, i timbri e il carattere dei legni e del corno in Mozart che emergono nell’orchestrazione di Brahms e ne sono spesso l’impronta riconoscibile. E questo, e altro, suonava una meraviglia.
L’elfo siberiano Petrenko, austriaco però dalla maggiore età e da almeno cinque anni un Berliner a tutti gli effetti, ha una tecnica direttoriale prodigiosa che parte dalla padronanza assoluta del testo (non fate caso alla partitura aperta sul leggio e all’occhio che gli cade sopra ogni tanto) e che si esprime nella precisione del gesto e nel rapporto simbiotico con gli orchestrali, un rapporto prodigo di sguardi e indicazioni. Con l’energia che ci mette, a prima vista sembrerebbe un direttore che si affidi principalmente al qui e ora del concerto, ma è altrettanto intensa la fase della concertazione – ne sanno qualcosa gli orchestrali – in cui esercita la sua proverbiale cura per il dettaglio. Sia come sia, in anni recenti l’Orchestra di Santa Cecilia, dall’insieme degli archi capitanati da Carlo Maria Parazzoli ai fiati a tutte le prime parti, non si è mai sentita suonare così.
Ma non era solo performance. L’elettrizzante tensione impressa all’Ouverture del Manfred, a partire dal suono, dall’espressività cercata nella singola arcata, ci ha consegnato tutta la visionaria bellezza di questo breve capolavoro. Mozart è stato in equilibrio perfetto tra ritmo e cantabilità, tra solisti – Andrea Oliva, Francesco Di Rosa, Andrea Zucco, Alessio Allegrini, tutte prime parti di Santa Cecilia – e orchestra. E poi è arrivato Brahms. Faceva un certo effetto scorrere sul libretto di sala i nomi di chi l’ha diretta con questa orchestra: Furtwängler nel 1922, Klemperer nel ’31, Walter nel ’36, Giulini in anni più recenti. Petrenko starà benissimo in questa lista. Il suo Brahms sa essere monumentale – solo se può essere vivo un monumento, però – e intimo e cameristico allo stesso tempo. Propositivo e combattivo (ah, la forma, il primo tempo della sinfonia…) e malinconico negli indugi carezzevoli dell’Andante sostenuto. Inquieto e percorso da un’inesauribile energia e da una magnifica flessibilità agogica e dinamica. I dettagli ci sono tutti e tutto si tiene, con l’urgenza della necessità.
Succede di ascoltare esecuzioni così rivelatrici che ci sembra di sentire quella musica per la prima volta. Petrenko ha diretto la Prima di Brahms con una tale intensità da farla sembrare l’ultima. Come se non ci fosse domani.